Aperto all’inatteso. Lo straniero di Michel de Certeau

Questo testo, donatoci in spirito di amicizia dal suo autore, Juan Diego Gonzàlez Sanz, è apparso nella Revista de Espiritualidad e lo ripresentiamo qui in versione italiana, nella traduzione di Monica Elisei. Rappresenta un prezioso, sintetico profilo di uno dei primi libri di Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, (tradotto in Italia da Vita e Pensiero). L’opera analizza in maniera singolare le specificità della spiritualità di Certeau nel considerare l’altro come un messaggero di Dio e nel rivendicare la differenza come aspetto consostanziale dell’unità che i cristiani sono stati chiamati a vivere.

Il seguente contributo, inserito all’interno di questo numero che la Revista de Espiritualidad ha dedicato alla memoria di Michel de Certeau – a mio parere con ottimi risultati -, ha come obiettivo quello di fomentare i lettori ad approcciare l’opera del gesuita in modo personale, senza le digressioni, il più delle volte ripetitive, di presunti critici accreditati o “esperti”.

Per tale motivo mi sono offerto di collaborare attraverso uno dei libri di Certeau che mancava ancora di un’edizione in castigliano: Lo straniero o l’unione nella differenza (1), il quale, grazie alla fiducia dimostratami dall’editore Trotta, ho avuto il piacere di tradurre e che spero sia apprezzato al più presto dal pubblico spagnolo. Negli ultimi anni l’opera di Certeau è stata largamente analizzata e molte sono state le riflessioni nate a riguardo (2). Senza vantare altri meriti, il tempo dedicato al suo studio è l’unica garanzia che posso offrire per le parole che consegno di seguito al lettore.

In prima istanza tratterò la condizione dello Straniero all’interno della sua opera. Di seguito illustrerò il criterio con cui l’autore considera l’altro, o gli altri, espressione concreta della presenza di Dio, partendo dalla diversità che abita in ognuno di noi. Infine, si esaminerà un’ulteriore modalità tramite cui l’alterità di Dio ci si manifesta dinanzi: l’irruzione dell’inaspettato, la realtà della conoscenza vera.

1. LO STRANIERO, UN PUNTO DI SVOLTA

Lo straniero è un testo sui generis all’interno di una produzione eterodossa. Eterodossa nei suoi contenuti e nella riflessione sul percorso di vita dell’autore (3). Non ci sono opere simili nella sua bibliografia (4): è diversa dagli elaborati precedenti che trattano della Compagnia dedicata ai mistici – compagni di Ignazio di Loyola come Pierre Favre (Mémorial (5)) e Jean-Joseph Surin (Guide spirituel pour la perfection (6); Correspondance (7)) – non è uno studio storico come La possessione di Loudun (8) o La scrittura della storia (9), né un saggio antropologico all’interno degli studi culturali, come L’invenzione del quotidiano (10), né un compendio di riflessioni sulla realtà sociale come La presa di parola(11) o La culture au pluriel(12), tanto meno un testo teologico nel senso classico, in quanto pretesa di dimostrazione scientifica sistematica di interrogativi rivolti a Dio. È qualcosa di molto distante dallo stile di Certeau.

Definirei Lo straniero, in maniera più appropriata, un testo spirituale: un suggerimento di tematiche e modalità per affrontarle che nascono direttamente dall’esperienza religiosa dell’autore. In quest’ottica Lo straniero è, dalla mia prospettiva e da quella cristiana, il libro più personale e intenso di Certeau che ci rende due omaggi: la testimonianza di un’era che ormai non esiste più e la ricerca sincera di Dio che l’ha caratterizzata e un invito a considerare seriamente la validità che l’eredità cristiana continua a custodire oggi nonostante la necessità di un nuovo linguaggio che la riporti in auge.

Dato alle stampe per la prima volta nel 1969, il libro riesamina alcuni lavori precedenti dell’autore già pubblicati in varie riviste(13), in modo particolare in Etudes e in Christus, entrambe molto vicine alla Compagnia di Gesù e con le quali Certeau sembra aver collaborato attivamente per lungo tempo. È evidente che quarantotto anni per un libro non sono pochi, senza aggiungere che dal 1969 non è solo scomparso l’autore, deceduto prematuramente nel 1986, ma un’intera epoca a gran velocità.

Ultimamente il cattolicesimo, la Compagnia di Gesù, il dibattito teologico, le correnti di pensiero filosofico, sociologico, psicologico, la dinamica sociale, l’uso delle tecnologie dell’informazione… sono cambiati totalmente. In sintesi, la società europea e la religione cattolica hanno affrontato una trasformazione di enorme portata. Non risulta facile pertanto la comprensione a priori delle parole che Certeau offre ne Lo straniero. Eppure, come il lettore attento e ispirato potrà appurare, questa difficoltà non è insormontabile.

In maniera curiosa il testo ha richiesto al suo autore, come a coloro che lo leggono oggi, uno sguardo retrospettivo sulla realtà che con l’avanzare degli anni non aveva più considerato. Non perché si rifiutasse ma perché il suo percorso di vita lo stava spingendo verso altri sentieri e nuovi linguaggi. A tal proposito, Luce Giard ha affermato con chiarezza che il libro “può essere letto come l’addio [di Certeau] alla peculiarità di un mondo intellettuale e sociale” quello del cattolicesimo in cui si era formato. Eppure, non bisogna fraintendere, poiché Certeau “non tentava di dimenticare o seppellire la tradizione delle sue origini” (LE, VII).

Di fatto il Certeau che si incontra ne Lo straniero è più apertamente cristiano che in altri testi. I diversi capitoli del libro espongono con chiarezza la profondità della sua vocazione e la vitalità della sua fede, pur mettendo in continua discussione qualsiasi certezza su Dio. Nonostante tale approccio (con ironia ed estrema lucidità) abbia fatto dubitare alcuni della reale fede di Certeau, arrivando ad accusarlo perfino di eresia, una lettura attenta della sua opera dimostrerà che la tendenza a svalutarsi fa parte dello stile di Certeau. In tutto il suo corpus è presente una sconcertante umiltà che nasce da una cosciente spiritualità che riguarda ogni fase dell’infanzia, una fragilità del cristiano in ogni ambito della sua vita (14).

D’altro canto, è certo che la prosa di Certeau non ha nulla di apologetico né di pastorale. La sua produzione da gesuita non è mai stata considerata, per ciò che concerne la sezione degli scritti, un lavoro di didattica. I testi che fanno riferimento al cristianesimo sono pulsanti e, a volte, difficili da leggere, per l’estremo acume o per l’incisività delle sue idee critiche nei confronti della Chiesa, della teologia ecc. Tuttavia, ne Lo straniero si può incontrare dal Certeau più apostolico a un evangelizzatore che non ha timore di annunciare la Buona Novella tramandata dalla tradizione della Chiesa senza affettazione e la sfrontatezza perentoria di colui che dubita dell’intelligenza di chi ascolta. Ne Lo straniero un Certeau più semplice del solito sembrerebbe voler offrire, secondo Giard, “alcuni solidi fondamenti che potrebbero aiutare i suoi lettori, come a se stesso, a tracciare il cammino del proprio viaggio nella società contemporanea” (LE, VIII).

La struttura che presenta questi fondamenti è la seguente. Si inizia la lettura con “L’esperienza spirituale”, un testo scelto dall’editrice Luce Giard in sostituzione all’introduzione originale che l’autore ha scritto per la prima edizione nell’anno 1969. Segue il primo capitolo, “Lo straniero”, dopo il quale Certeau divide il libro in due grandi blocchi: il primo, “Incontri”, dal secondo al quinto capitolo, volto a rivelare la presenza di Dio nell’alterità degli altri; il secondo, “Il movimento della fede”, corrispondente al capitolo sei e sette, in cui ci si interroga sulla percezione della presenza di Dio nella storia. L’opera si chiude con una sorta di epilogo basato sulla lettura del Vangelo di Giovanni che Certeau intitola “Come un ladro”.

2. L’INELUTTABILE ALTERITÁ

Questo primo blocco, “Incontri”, si basa sull’idea che la compagnia degli altri è qualcosa di inevitabile. Ci sono scarsissime possibilità umane di fuga dalla vicinanza costante di quei “invasori presenti in tutti gli spazi delle nostre vite” (LE, 22). Tuttavia, il vissuto e l’interpretazione che si hanno dell’esperienza di relazione con loro può essere molto diversa, in base alla tipologia delle relazioni stesse.

Quando si inizia a trattare l’argomento degli incontri che la vita sociale implica, Certeau fa una prima digressione sul tema della violenza nel capitolo “La legge del conflitto”. Con stile brillante e sincero nel tono delle argomentazioni, l’assunto base che egli pone è che, vivendo con gli altri, presto ci si rende conto che il nostro sviluppo implica necessariamente l’atto di esercitare una certa violenza su di loro che, a loro volta, eserciteranno su di noi. Viviamo in continuo conflitto con la maggioranza delle persone.

“Esistere implica ricevere esistenza dagli altri ma anche, con l’aumentare dell’indifferenza, provocare le loro reazioni; è l’essere accettato e appartenere a una società ma anche prendere posizione nei confronti di questa e incontrarsi lì dinanzi, come dinanzi a un volto indecifrabile e ostile alla presenza di altre libertà” (LE, 24).

 

Anche se questo non è un punto di vista innovativo (estremizzato da alcuni come Sartre che affermava “l’inferno sono gli altri”), vi è una prospettiva molto originale nel recuperare positivamente la conflittualità di cui si parla in queste pagine. In una frase che esprime profonda certezza evangelica, Certeau affermerà che il suo testo non cerca di “determinare fin dove o come il cristiano deve coinvolgersi nei conflitti ma semplicemente specificare come questi implicano un significato religioso” (LE,22).

Certeau propone come base delle sue fondamenta l’idea permanente e radicale che gli altri, ogni singolo nello specifico, sono messaggeri di Dio, il luogo in cui si rende concreta la sua presenza. In altre parole, i conflitti per i cristiani rappresentano qualcosa in più, un aspetto aggiuntivo, una caduta necessaria per l’incontro con Dio.

Uno dei punti principali di questo contributo ulteriore che Certeau segnala è che i conflitti permettono di prendere coscienza della singolarità di ognuno, della condizione di ogni persona concreta nel mondo e nella società, condizione che è frutto (nel caso degli adulti) delle decisioni e delle risposte che ogni cristiano ha preso durante il suo percorso di maturazione personale e quello della sua vocazione. Eppure, sono proprio le condizioni a definire questa posizione nel mondo, quelle che determinano il confronto con gli altri, con le ambizioni, le necessità e le decisioni altrui.

Coscienti della gravosità della materia, ove ognuno rivendica il suo diritto di essere, i cristiani non smettono comunque di ascoltare la chiamata del loro Dio che gli ricorda di essere testimoni della pace tra tante peripezie. Ciò diviene possibile solo attraverso l’accettazione del compromesso della libertà, ovvero “la consapevolezza che un diritto fondato sulla responsabilità personale impone il rispetto di un diritto equivalente nei confronti degli altri” (LE, 26).

Considerando le riflessioni fatte in precedenza, nonostante tutto, Certeau insiste sull’idea che gli altri sono indispensabili non solo da una prospettiva sociale ma soprattutto da un punto di vista cristiano. Il concetto è approfondito nel capitolo tre, “Dare la parola”, dove si ricorda che gli altri sono gli interlocutori del nostro linguaggio. Attraverso di esso, loro ci educano e noi li educhiamo, ci aiutano ad instaurare una relazione con il passato da cui proveniamo e ad aprire gli occhi alla luce della speranza verso un futuro possibile.

“Quasi investiti dal dovere educare, ognuno di noi deve imparare a leggere la   propria esperienza per insegnare agli altri un’arte che avrà scoperto con loro e per ricevere, nell’esercizio stesso del proprio lavoro, la grazia di essere «Discepolo di Dio» (Giovanni 6,45)” (LE, 47).

 

Nell’atto di educare, che avviene sempre “faccia a faccia” (LE, 47) senza le barriere della comunicazione digitale, ogni persona che prova a trasmettere lucidamente qualcosa agli altri si trova dinanzi alla paura prodotta dalla sua ignoranza o dalla mancanza di connessione che percepisce tra quello che trasmette e ciò che deve essere di aiuto a coloro che lo ricevono. E, come indica Certeau, grazie a quella paura ci si rende conto di non essere tanto diversi da chi si educa.

 

“Attraverso l’esperienza banale, quotidiana, del proprio incontro con coloro che forma, l’educatore impara a rilevare in essi un interrogativo più radicale di tutte le sue obiezioni e di tutte le sue lezioni; si sente legato a loro da una condizione comune” (LE,51).

 

Tuttavia, la mera percezione dell’uguaglianza fondamentale che li unisce in questa stessa condizione umana non annulla la differenza che c’è tra chi educa e chi è educato. Nonostante le parole cariche di contenuto siano strumento uguale che deve spingere tutti, educatori ed educanti, a lavorare per dare un senso alle loro vite, l’educatore ha una responsabilità distinta e superiore di fronte al palesarsi del significato delle parole. L’educatore, per sua formazione ed esperienza comprende, affermerà Certeau, altri significati che la parte nascosta di ogni parola racchiude: “Non che sappia qualcosa di più, ma lo conosce sotto altra forma” (LE, 57). Solo da questo sapere distinto, e con la premessa dell’accettazione della condizione condivisa, l’educatore potrà essere un referente valido per coloro ai quali si dirige, stabilendo con essi un nesso efficace tra il presente che vivono e il passato in cui radicare necessariamente le proprie radici.

 

“Così come le nuove generazioni hanno necessità della sua forza, maturata nell’umiltà di un continuo interrogarsi personale, hanno altresì il diritto di aspettarsi da lui i frutti di una tradizione passata al vaglio dal presente” (LE, 58).

 

Imbrigliato per vocazione al vincolo del tempo che sopraggiunge e a quello che si allontana, l’educatore (e quale cristiano che non lo è?) scopre nel suo compito il piacere di servire e prende coscienza che il suo lavoro, tra coloro che lasciano un mondo in eredità e quelli che lo ricevono per ricrearlo, è un servizio a scopo di unità.

Nel capitolo 4, “La vita in comune”, Certeau offre un passaggio ulteriore riguardo la sua rivendicazione degli altri, gli educatori conflittuali, al fine di poter approfondire quella mutua accoglienza di coloro che sono percepiti come diversi. Analizzando il fenomeno della convivenza tra i missionari e gli abitanti dei paesi di accoglienza, il nostro gesuita rileva che questi ultimi, che rappresentano il destino permanente della vocazione cristiana, affinano le doti della condivisione coabitando con tutto il nuovo che il missionario impone.

 

“Il missionario deve essere malleabile su quegli aspetti della popolazione che percepisce come fragili. La conversione di questa popolazione e la sua, poiché diversi, vanno di pari passo; entrambi tracciano gli itinerari che inducono gli uomini a riconoscersi figli dello stesso padre” (LE, 69).

 

Come afferma Certeau, la mutua accoglienza tra chi arriva e chi riceve, è il germoglio imprescindibile di qualsiasi vita ecclesiastica che possa definirsi tale, anche se non è semplice. Ambo le parti devono fare numerose rinunce affinché i muri che li separano siano permeabili e per riconoscere in Dio l’unico elemento di unione. Si materializza davanti ad accoglienti e accolti la sfida di accettare l’avventura della comunità Santa. Facendo propria la missione del costruire, il missionario sentirà, e questo sarà la prova migliore dell’autenticità del proprio apporto, la necessità di rendere viva nel presente la povertà del presepe e della croce.

 

“La fede cristiana è esperienza di fragilità, un mezzo per convertirsi nell’ospite dell’altro che ci impaurisce e ci rende vivi. Quest’esperienza non è nuova. Dopo secoli, i mistici, gli spirituali la vivono e la narrano (15)”.

 

Solo a partire da quest’esperienza il missionario potrà (ma anche qualche altro apostolo che riesce ad abbandonare le sue certezze per annunciare il Vangelo, pur semplice e apparentemente grossolano che sia il concretizzarsi quotidiano della sua vocazione), portare a termine l’incarico che ha ricevuto durante il battesimo e che risulta essenziale alla sua condizione di cristiano: la cura del gregge, il lavorare affinché ogni persona prenda coscienza della realtà della sua vita alla luce di quello che Dio desidera per essa, in altre parole, far crescere in Dio ciò che da Dio è nato attraverso il Verbo.

Per concludere la prima parte del libro, Certeau afferma nel quinto capitolo “Il tempo della rivoluzione” che gli altri, con i quali ogni individuo forma parte di una società, le cui radici affondano nella storia, sono anche i compagni (o gli avversari) che aiutano ad avviare quel processo di ribellione contro tutto ciò che non rispecchia il giusto. La rivoluzione cubana e la sua influenza latinoamericana (ricordiamo che la pubblicazione de Lo straniero risale al 1969) è l’evento storico che coincide con l’avvio al dibattito.

Emerge nella prospettiva certiana l’uso che la rivoluzione fa della violenza e il significato che questa ha all’interno di una società. Per Certeau (fortemente influenzato dalla linguistica), la scelta della violenza implica un cambiamento grazie al quale i diversi elementi di una società sono capaci di comunicare tra loro e di prendere in considerazione i comportamenti dei più, con la speranza di costruire una convivenza migliore.

 

“La violenza segnala che si è oltrepassata una soglia oltre la quale la normalità di gestione dei conflitti non è possibile. Rimane solo l’atto che rompe con una società, che scioglie il tessuto di scambio o rileva, aggravandole, le falle e l’artificio di un linguaggio sociale. Cerca di delineare la fine di un sistema e l’inizio dell’altro. Vuole essere un funerale e una rinascita” (LE, 100).

 

L’atto di nascita, non di un individuo, ma di una società nuova. La domanda di Certeau a tale riguardo è molto pungente: Come può questa nuova società rivoluzionaria accettare l’idea che il tempo la allontana sempre più dal punto zero della sua nascita? Come articolare la tensione tra la prima generazione, quella che imbraccia le armi e rovescia l’ordine antico, e la seconda che si vede costretta a essere ribelle con il regime che ha ereditato dai rivoluzionari iniziali?

Queste tensioni sono conseguenze del fatto che, al di là della ricerca di un perfezionamento individuale, l’inquietudine della rivoluzione è la trasformazione totale di un quadro sociale che deve corrispondere il più possibile all’ideale che lo muove. Ad influenzare una collettività sociale, soggetta all’azione del tempo e della storia concorre anche il conflitto costante tra coloro che vogliono che si conservi ciò che hanno costruito con tanta violenza e quelli che, applicando la stessa logica rivoluzionaria, desiderano cambiarlo per qualcosa di nuovo.

È nell’uso della violenza, come strumento per il raggiungimento di tale obiettivo, che Certeau rintraccia il punto critico che rende più complesso il dialogo tra rivoluzione e cristianesimo. Senza lasciarsi influenzare dalle correnti che vorrebbero intravedere nella rivoluzione la conclusione naturale di un cristianesimo “autentico”, Certeau propone tesi differenti che inducono a diffidare da un’assimilazione rapida di entrambe le realtà. Più che delineare subito i concetti di rivoluzione e cristianesimo (come hanno fatto tanti autori cristiani sul finire degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70) il nostro autore insiste nel suggerire che la rivoluzione e la violenza che ne scaturisce, sono, in quanto avvenimenti di grande rilevanza del momento, una domanda alla quale il cristianesimo deve cercare di rispondere.

 

“Per il teologo la rivoluzione non rappresenta tanto ciò di cui essa parla in quanto soggetto di argomentazione. È l’evento che scuote le società. È in relazione a questo evento attuale che deve essere chiarita la domanda che apre la parola di Dio a questa esperienza umana e sociale di pericolo e di morte” (LE, 121).

3. L’AVVENIMENTO, INASPETTATA FONTE DI SIGNIFICATO

Avvenimento: una parola speciale all’interno del nostro linguaggio. La sua chiarezza scardina le negligenze e le sicurezze di ogni giorno, ricollocando gli elementi del nostro discorso in base a un nuovo ordine di priorità. Certeau dedica a questo tema i due capitoli che compongono la seconda parte del libro “Il movimento della fede”: il capitolo sei “La parola del credente” e il capitolo sette “Apologia della diversità”. Entrambi seguono un filo che descrive la fede come una risposta che si dà a qualcosa che accade inaspettatamente, ad un avvenimento.

L’idea che introduce “La parola del credente” è che, secondo quanto detto in precedenza, La parola di Dio è, o per lo meno è chiamata ad essere, un vero avvenimento. Per Certeau c’è qualcosa di molto interessante nel processo comunicativo che si dà tra questa Parola di Dio e la parola dell’uomo e della donna ai quali si rivolge e che, in un modo o nell’altro, rispondono ad essa. È necessario partire, egli dichiarerà, dal fatto che il linguaggio della fede è un linguaggio realista. Dal momento in cui la società smette di essere monoliticamente strutturata intono alla religione (questo accade in Europa dal Rinascimento e, in particolare, dalla Riforma protestante di cui a breve si celebrerà il quinto centenario), si va perdendo l’efficacia del linguaggio religioso, incluso quello teologico, per prendere coscienza delle manifestazioni di Dio e dell’esperienza che l’uomo trae da loro. Con riferimento alla forte rinascita della musica nel XVI e XVII secolo, si affermerà che:

 

“Lo scisma progressivo tra una scienza e una vera argomentazione di una rivelazione storica e un’esperienza che prende distanza dalla teologia per descriversi separatamente, si manifesta in ogni espressione della vita cristiana […] la nozione di teologia si modifica; non definisce più la scienza rigorosa delle realtà della fede ma il sentimento del mistero che si trova nell’esperienza, nella saggezza impregnata di pietà e maturata dal discernimento, dalla riflessione di un tipo particolare, nata e dedicata alle relazioni personali con  Gesù Cristo e alle attitudini morali verso le quali queste conducono(16)”.

 

In quest’ottica, per quanto si cerchi, il cristiano di oggi non potrà fare uso del lascito che gli hanno tramandato gli antichi, degli strumenti concettuali e linguistici con i quali questi hanno fatto fronte a ciò che la fede comportava nelle loro vite. I cristiani di oggi sono molto più legati di quanto credano al luogo dove sono nati e cresciuti, quindi “abbiamo imparato il linguaggio del nostro tempo, facciamo parte del suo pensiero (17)”.

Interrotta la via d’accesso diretta al linguaggio con la quale la fede si è manifestata in altri tempi e nella cornice di altri modi di pensare, chi si sente chiamato a seguire Cristo oggi deve confrontarsi con la difficile prova del silenzio di Dio. Tuttavia, nonostante il suo linguaggio disincantato, la sua stessa fede lo induce a negare la possibilità per cui questo silenzio sia totale e lo spinge a rintracciare in ciò che accade, in ogni avvenimento della storia (della sua storia), la presenza di un Dio di cui non si è messa in dubbio la volontà di comunicare. La perdita di un linguaggio capace e potente predispone il suo cuore e la sua mente alla possibilità di una ricerca nuova.

 

“Questo disincanto, dovuto al rincontro con gli altri e a un confronto con la realtà di cui abbiamo la pretesa di parlare, ci apre la via verso una verità umana ed evangelica più autentica. Per cui quando mi sento debole, allora sono forte (2 Cor 12,10)” (LE,141).

 

In questo modo, per il cristiano del nostro tempo che prova a comunicare sinceramente con il Dio che si è rivelato in altri tempi, gli avvenimenti che caratterizzano la sua vita sono quasi l’unica fonte delle orme del passaggio di Dio. Eppure, senza saperlo, dirà Certeau, il credente subisce una cecità temporanea che gli impedisce di essere subito cosciente della trascendenza di quello che accade.

 

“Gli avvenimenti ci modificano e non ce ne rendiamo subito conto. Forse è questo uno degli aspetti più caratteristici del Vangelo: i discepoli, gli apostoli, i testimoni, non arrivano a comprendere, se non dopo, cosa gli è accaduto. Il senso e l’intelligenza giungono dopo l’avvenimento come il suono del colpo arriva dopo la vista dell’azione. C’è un ritardo nella comprensione” (LE, 4).

 

Agli occhi di Certeau, l’avvenimento diviene così, per il cristiano, un percorso inevitabile verso l’incontro con Dio per conoscere la sua volontà e metterla in pratica. Senza la possibilità di disporre di sicurezze nei riguardi della fede, al cristiano che vive nel mondo disincantato che ha lasciato dietro di sé la modernità, non rimane altro rimedio che imparare ad assumersi il pericolo della fede nella provvidenza che dimora in ogni angolo della sua umile esistenza.

 

Rispetto a questo manifestarsi della presenza di Dio, Certeau evidenzia un secondo punto fondamentale nella sua “Apologia della differenza” (capitolo sette): il credere che solo il diverso è capace di infrangere le rigidità delle usanze e, pertanto, di aprire gli occhi verso la comprensione che ci fa scoprire che è Dio che a manifestarsi. Tutto l’avvenimento è qualcosa di strano, una presenza straniera nella nostra quotidianità. Per Certeau, l’avvenimento che spinge alla fede, e che allo stesso tempo ha necessità di questa, è sempre frutto della differenza.

 

“Ci sono mille forme di essere un idolatra e di identificare l’assoluto con le sue manifestazioni passate o con lo status di una società. Una delle più sottili, e attualmente delle più diffuse, è il rifiuto della differenza” (LE, 155).

 

Inoltre, questa differenza sembra andare contro l’unità menzionata in precedenza e che si presenta alla Chiesa come la meta da raggiungere. È possibile “che diventino un tutt’uno” nonostante le differenze profonde e persistenti fra i cristiani? La risposta di Certeau, lontano dal risultare semplice e conciliante, finisce per scavare nelle differenze percepite e dargli l’importanza che hanno realmente.

A suo parere, una risposta che non sia ingannevole sarà possibile solo riconoscendo le profonde distanze che il cristiano sente rispetto al mondo che gli è toccato vivere, nei confronti di molti, in generale, e in particolare rispetto a coloro con cui forma una Chiesa.

La questione del linguaggio al quale abbiamo fatto riferimento in precedenza torna ad avere una rilevanza, così come la tematica delle mille eterogeneità che configurano le società attuali. Se a queste uniamo il protagonismo acquisito dalle masse, che si manifesta con una partecipazione cospicua attraverso i social media (è un peccato che Certeau non abbia conosciuto l’era delle reti sociali cha ha confermato le sue intuizioni), potremmo disegnare un paesaggio (frammentazione del mondo in mille pezzi, con lingue diverse e senza chiare gerarchie) che non è preparato alla configurazione della fede tradizionale cristiana. Ciò nonostante, il nostro autore non vuole guardare a questa realtà con pessimismo.

 

“[…] il problema è la differenza. È il nostro topazio. Forse, tuttavia, la confusione ci indurrà sulla via di un’intelligenza migliore della fede che vacilla. Non è che le tensioni racchiudono in se stesse la luce – pensarlo sarebbe una forzatura – ma, inevitabili, possono convertirsi in un’esperienza che la fede chiarisce e che le risulta essenziale” (LE, 171).

 

La teologia della differenza che propone Certeau si basa principalmente nel riconoscere il pluralismo che Dio ha coltivato da sempre nel suo rapporto con l’uomo. Un pluralismo che già nell’Antico Testamento compare un’altra volta facendo crollare l’esclusività con il quale il popolo di Israele vive la sua relazione con il Dio salvatore. Lo stesso che germoglia definitivamente nella Pentecoste e che attraversa per intero il Nuovo Testamento e l’evoluzione che costituisce la storia della Chiesa. Attraverso Amos, Isaia o Paolo, la parola di Dio rivendica in ogni momento il valore della sua singolarità e riconosce questa come la strada giusta che ci spinge a vivere lontani dall’idolatria, per condurci “nello spirito e nella verità” (Giovanni 4,24)

Interiorizzare questa forma di prepararsi all’incontro con Dio, che consiste di base nell’assumere in tutta la sua ampiezza e serietà la differenza totale che lo costituisce, sarà per Certeau l’unico cammino per non soccombere alla tentazione di ricercare l’uguaglianza tra gli uni e gli altri annullando le differenze (sia quale sia, il modo in cui ciò si presenta). Rimangono sul tavolo due compiti principali per renderlo possibile: dare maggior rilevanza all’esperienza e rivendicare il pluralismo di fronte alla bipolarità del dentro-fuori, dell’amico-nemico.

Senza un forte da difendere né un impero da conquistare, la proposta spirituale di Michel de Certeau per i cristiani di questo tempo esige di accettare la sfida di incontrare un Dio più grande a dispetto dell’altro, degli altri. Nonostante sia stato denudato davanti a un mondo disincantato e a una Chiesa a pezzi, se è aperto all’inaspettato, il cristiano si troverà più preparato che mai a sentire, dinanzi a ogni regalo che arriva da Dio a ogni straniero, la grande gioia della gratitudine.

4. CONCLUSIONI

Sono convinto che non saranno molte le volte in cui il lettore avrà l’occasione di avvicinarsi a un testo tanto profondo e articolato come Lo straniero o l’Unione nella differenza, muovendosi specialmente dalle radici di una spiritualità cristiana. Seppur non sia il testo più famoso del suo autore, né quello maggiormente elaborato, né il più complesso, Lo straniero permette condividere con Michel De Certeau il passaggio verso una maggior coscienza delle difficoltà e delle sfide, ma anche delle opportunità che implica il cristianesimo per le donne e gli uomini che vivono alle porte del terzo millennio. Violenza, educazione, parola o differenza sono solo alcuni dei termini che disegnano gli ornamenti dell’esperienza di una fede nella cui discontinuità Certeau ci aiuta a soffermarci, anche solo per un secondo.

La sua immensa erudizione e gli apporti – che si osservano nel testo- delle molteplici discipline umanistiche e sociali delle quali si è nutrito, insieme all’esperienza diretta della battaglia della fede in tempi per nulla semplici, convertono Miguel de Certeau in un testimone privilegiato per cercare la luce tra le oscurità del nostro presente. Se a ciò uniamo il costante riferimento alle Scritture, la cui lettura attenta e sottile si apprezza durante tutta l’opera di Certeau, possiamo concludere che Lo straniero è un contributo di primo ordine per questo riscatto della Parola che è sul punto di avvenire.

In questi giorni in cui la tentazione di fuggire dai silenzi del cristianesimo spinge molti a sopraffarli con i mormorii indecifrabili provenienti da terre lontane, la lettura de Lo straniero può essere un’opportunità per riscoprire nuovi tesori nelle profondità della nostra tradizione: nuovi giacimenti, seppur dimenticati, nello stesso terreno nel quale sono cresciute le nostre radici e dalle quali abbiamo imparato a parlare.

 

Juan Diego Gonzàlez Sanz

 

 

 

 

* Pubblicato nella REVISTA DE ESPIRITUALIDAD, N° 303 (2017) 241-256

(1) In attesa della pubblicazione in castigliano, le citazioni che compaiono di seguito fanno riferimento all’edizione francese: M. De Certeau, Létranger ou I’union lans la différence, edizione nuova diretta e introdotta da Luce Giard, Seuil, Points, París, 2005 (da ora LE).

(2) Possono consultarsi, tra gli altri, J.D. GONZÁLEZ-SANZ, “Instituciones y creen cias en la obra de Michel de Certeau”, in Thémata, 53 (2016), pp, 195-218; “El estallido de las creencias, Reflexiones sobre dos textos de Michel de Cer teau”, in Comprendre. Revista Catalana de Filosofía, 18 (2016), pp. 53-70; “Cómo nace una institución. Reflexiones sobre Una política de la lengua de Michel de Certeau”, in Anales del Seminario de Ilistoria de la Filosofa, 32 (2015), pp. 567-588; (Coord.) “Michel de Certeau. Una herencia”, numero monografico di ‘La tensión entre saber y creer en Michel de Certeau”, in Pensamiento, 267 (2015), pp. 733-758.

(3)Da consultare una breve biografia di Certeau in L. Giard, “Petite biographie de Michel de Certeau“, in Michel de Certeau. Le voyage de I ‘ocuvre, Éditions Facultés Jésuites de Paris, París, 2017, pp. 245-258

(4) È possibile consultare la bibliografia completa dell’autore in L. Giard, “Biobibliographie“, in Michel de Certeau. Cahiers pour un temps, Centre Georges Pompidou, París, 1987, pp. 245-253.

(5) B. P. Favre, Mémorial, a cura di Michel de Certeau, Desclée de Brouwer, París, 1959

(6) J. J. Surin, Guide spirituel pour la perfection, edición de Michel de Certeau, Desclée de Brouwer, París, 1963.

(7) J.J. Surin, Correspondance, a cura di Michel de Certeau, Desclée de Brouwer, París, 1966.

(8) M. De Certeau, La possession de Loudun, Gallimard, París, 1970.

(9) M. De Certeau, L ‘écriture de I ‘histoire, Gallimard, París, 2a ed., 1975.

(10) M. De Certeau, L ‘invention du quotidien. 1. Arts defaire, Gallimard, nuova edizione, diretta e presentata da Luce Giard, París, 1990 (1980).

(11) M. De Certeau, La prise de parole et autres écrits politiques, edizione diretta e presentata da Luce Giard, Seuil, París, 1994 (1968).

(12) M. De Certeau, La culture au pluriel, Seuil/C. Bourgois Éditeur, nuova edizione diretta e presentata da Luce Giard, París, 1993 (1974).

(13) Sull’uso dei suoi testi da parte di Certeau si può consultare A. G. Freuomil, “Pratiques du réemploi et historicité des titres dans La Fable mystique, XVIe-XVIIe siêcle I”, en Michel de Certeau, Le voyage de l’oeuvre, Éditions Facultés Jésuites de Paris, Paríss 2017, pp. 111-119.

(14) Questa tematica viene sviluppata in modo particolare nel primo testo del libro “L’esperienza spirituale”, ma può essere approfondita anche in M. De Certeau, La Faiblesse de croire, Seuil, París, 2ªed., 2003.

(15) M. De Certeau, La Faiblesse de croire, Seuil, París, 2ª ed., 2003, p. 304 (la traduzione è ad opera mia).

(16) M. De Certeau, “Introduction”, in B. P. Favre, Mémoñal, Desciée de Brouwer, Paris, 1959, p. 25.

(17) M. De Certeau, “Introduction”, in B. P. FAVRE, Mémorial, Desciée de Brouwer, Paris, 1959, p. 69.

Foto di copertina di E. Prandi, canale di Cambridge, particolare di passaggio.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *