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Storia, morte e mistica in un saggio su Certeau

Accade ogni tanto che qualche amico del nostro sito web ci regali, in spirito di vera condivisione, qualche preziosissimo lavoro in italiano sul nostro autore. Ringraziamo di cuore il gesto di Luigi Azzariti-Fumaroli di farci dono del suo saggio Michel de Certeau. Linguaggio della storia: silenzio sulla morte e parola mistica apparso sulla Rivista di Filosofia Neo-Scolastica nel 2012.

Potete leggere l’articolo a questo link.

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Letture certiane di Luigi Mantuano

In questi ultimi anni sono apparsi presso l’Osservatore Romano alcuni preziosi e utili articoli che sintetizzano aspetti essenziali del pensiero di Michel de Certeau. Autore dei testi è un caro amico delle attività del nostro sito, Luigi Mantuano, a cui dedichiamo volentieri questa pagina del sito nella nostra sezione Scaffale, dove raccogliamo i suoi contributi. Ad essi, aggiungiamo volentieri anche il pdf con la sua traduzione del saggio di Certeau Che cos’è un seminario, uno testi testi cruciali della produzione del grande autore.

Partecipare tutti all’invenzione del quotidiano

L’amour des marges

Il maestro che non voleva discepoli

Traduzione di Che cos’è un seminario?

In ricordo di Paola di Cori

Grazie Paola

Lunedì 6 novembre 2017 Paola Di Cori ci lasciato. Storica, teorica femminista e degli studi di genere, studiosa appassionata e osservatrice arguta delle pratiche contemporanee, Paola non lascia un vuoto ma il progetto di un percorso piano e vitale, ancora da tracciare, in cui i suoi testi e le sue riflessioni ci seguiranno, come una guida.

Abbiamo svolto insieme un cammino decennale, nel gruppo di ricerca Prendere la parola, che coordinava con passione rigore e affetto, e attraverso questo sito, Michel del Certeau in Italia, entrambi frutto della sua intuizione e ancor più del suo desiderio instancabile di costruire, innovare e condividere.

Serbiamo di lei un ricordo che è insieme promessa di futuro: una capacità di progettare affermazione di vita costruita prima ancora che su interessi condivisi, sulla capacità di una collaborazione sincera e generosa, capace di divenire negli anni stima, affetto, amicizia.

Amica e animatrice entusiasta, Paola ha arricchito tutti noi con lo spirito di iniziativa che la ha accompagnata fino alla fine della lotta contro la malattia, da lei trasformata con coraggio in oggetto di ricerca e riflessione intellettuale sul linguaggio e le pratiche della cura, sul corpo, sul silenzio, sulla morte.

Paola ha continuato a lavorare instancabilmente fino agli ultimi giorni, dopo aver curato – già quando era molto malata – un numero della rivista Leussein dedicato alla riflessione sul genere e sull’identità, dopo aver organizzato un ciclo di seminari sulla malattia e la relazione fra medico e paziente, dopo averci consegnato il suo ultimo lavoro su Michel de Certeau, a cui lavorava da anni, e che ha voluto con tutte le sue forze terminare.

Oltre a questa forza interiore ineliminabile, al desiderio di progettare come fuga dal dolore e dalle difficoltà, resta il segno della sua capacità di costruire contatti tra persone diverse senza mai rinnegarne la differenza, della sua perseveranza nel confronto aperto, del suo umorismo cordiale tanto quanto della sua disciplina esigente sul lavoro.

I suoi contributi erano il frutto di un’intensa attività di studio associata a una pratica costante della relazione e del dialogo: con quanti condividevano i suoi percorsi di ricerca, con quelli incontrati per caso, con coloro che la pensavano diversamente. La condivisione e l’ospitalità erano elementi costitutivi della sua attività intellettuale, all’insegna del concetto di caquetoir: il punto di intersezione mai fissato a priori della discussione libera, della comunicazione che può cambiare i pensieri e le cose, giacché il suo esito è costitutivamente aperto e indeterminabile a priori.

Questo patrimonio di dialoghi e di eventi realizzati insieme e ancora più di una pratica della vita è l’eredità che raccogliamo oggi con profonda gratitudine, debitori di un grande contributo dato in gratuità e onestà di spirito. Riportiamo di seguito alcuni testi che evocano lo spirito con cui Paola svolgeva la sua attività di studiosa e ricercatrice, capaci di esprimere i valori che abbiamo potuto condividere insieme a lei, nei momenti di lavoro e di gioia.

Affinché la sua voce sia ancora con noi.

«Archiviare non significa depositare, etichettare e consegnare alla polvere, ma tutto il contrario. Come ha ricordato Derrida nel ’95: “Oggi niente è meno certo, niente meno chiaro della parola ‘archivio’; niente è più torbido e conturbante”. “L’archivio […] non è solo il luogo di stoccaggio e di conservazione di un contenuto archiviabile passato che esisterebbe in ogni modo […]. No, la struttura tecnica dell’archivio archiviante determina anche la struttura del contenuto archiviabile nel suo stesso sorgere e nel suo rapporto con l’avvenire” (Derrida 1995; trad. it. 1996: 25). L’archivio, quindi, non è il depositario di verità inconfutabili, ricerca ingenua di prove chiare e definitive che soddisfino l’ansia di legittimazione o una pretesa di improbabile coerenza. Sebbene l’atto di archiviare esprima un desiderio di chiusura e sistemazione, esso è sempre accompagnato da un altrettanto forte impulso all’interrogazione; non un mero ricettacolo di tracce, quindi, ma punto di incrocio, occasione per rimettere continuamente in discussione quanto vi è raccolto. Ecco quindi che ogni momento dell’archiviazione, ciascuna aggiunta o riapertura, modifica il significato stesso dell’archivio, proponendo non tanto la statica condizione di un insieme di memorie passate da riordinare, bensì un’idea di movimento, di futuro; problemi su cui indagare ulteriormente, cassetto che racchiude segreti da svelare più che documentare realtà indiscusse: “È una questione di avvenire, la domanda dell’avvenire stesso, la domanda di una risposta, di una promessa e di una responsabilità per il domani” (ivi: 47).»

«Come faccio spesso quando scrivo, mi piace ascoltare un po’ di musica. Ogni volta, ogni scritto, qualcosa di diverso. Solitamente, una volta scelto il genere – che può andare da Kid A dei Radiohead a Tito Puente, o un quartetto di Beethoven – gli rimando fedele per tutta la durata della scrittura di quell’articolo o saggio, con ripetuti ascolti dello stesso brano. La musica mi accompagna negli andirivieni e percorsi accidentati della stesura, e sono proprio le caratteristiche ritmiche di quella prescelta ad assecondarmi più e meglio di altre che sono invece servite come sfondo sonoro a pagine scritte in precedenza. Come se la scrittura avesse anche bisogno di una scansione che non ha solo a che fare con le parole e la costruzione di un testo, e che soltanto la musica – nel disporre i suoni nel tempo – può imprimere» (da Asincronie del femminismo. Scritti 1986-2011)

Aperto all’inatteso. Lo straniero di Michel de Certeau

Questo testo, donatoci in spirito di amicizia dal suo autore, Juan Diego Gonzàlez Sanz, è apparso nella Revista de Espiritualidad e lo ripresentiamo qui in versione italiana, nella traduzione di Monica Elisei. Rappresenta un prezioso, sintetico profilo di uno dei primi libri di Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, (tradotto in Italia da Vita e Pensiero). L’opera analizza in maniera singolare le specificità della spiritualità di Certeau nel considerare l’altro come un messaggero di Dio e nel rivendicare la differenza come aspetto consostanziale dell’unità che i cristiani sono stati chiamati a vivere.

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A proposito di Mino Bergamo

In occasione del convegno Michel de Certeau. Le voyage de l’oeuvre, tenutosi al Centro Sevres di Parigi nel marzo del 2016, Stefano Pepe era stato invitato ad intervenire su Mino Bergamo, figura di studioso della mistica moderna vicino all’approccio certiano, amico e allievo dell’autore di Fabula mistica. Pubblichiamo qui di seguito il suo intervento tradotto in italiano.

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Michel de Certeau: praticare la pluralità. I contributi del Convegno di maggio 2015

In occasione della tavola rotonda svoltasi durante il Convegno Michel de Certeau: praticare la pluralità organizzato presso il Centro Culturale San Luigi di Roma il 18 maggio 2015 dal gruppo di ricerca Prendere la Parola abbiamo invitato Gabriella Caramore, Jacques Fillion e Juan Diego Gonzalez Sanz, fra gli altri relatori, a tenere interventi sulla loro ricerca in relazione all’opera di Michel de Certeau. Presentiamo in questa sezione i testi dei loro contributi in lingua italiana. È disponibile il download dei testi originali in lingua (francese per J. Fillion e spagnola per J. D. Gonzalez Sanz).

La pluralità come cifra del pensabile

di Jacques Fillion

Davanti al pensiero dell’uno (l’enologia), occorre produrre dell’eterologia

Michel de Certeau

La pluralità, nel pensiero di Michel de Certeau, è un elemento cardine del “pensare altrimenti”. È in questa prospettiva che comprendo l’invito a “praticare la pluralità” come ci ha proposto il convegno di Roma. Più che una presa di coscienza, ci vedo l’indice di un lavoro: prendere in considerazione i cambiamenti nel pensiero e nell’azione che la nozione di pluralità mette in atto. Quanto presento qui non ha l’apparato critico che richiederebbe un’esposizione scientifica; è piuttosto una narrazione epistemologica che faccio emergere da una lunga frequentazione dell’opera di de Certeau [1]. Riprendo, in modo più documentato e articolato, gli elementi sparsi che ho condiviso in occasione della tavola rotonda: identificare i principali parametri che organizzano, in de Certeau, la nozione di pluralità, a partire dalla semplice idea di diversità dei campi e degli approcci fino alla pluralizzazione interna dello “statuto del comprendere”.

In effetti, la pluralità è essa stessa plurale: è una nozione multiforme a più entrate:

  1. innanzitutto, essa prende atto della diversità delle questioni, ma pure della diversità dei contesti e dei campi messi in gioco da una medesima questione;
  2. in conseguenza dell’attenzione accordata all’alterità e alla differenza, essa riconosce la validità a) di approcci diversificati di un medesimo oggetto, dovuti al dislocamento nella “topografia contrattuale dei locutori” [2] che permette un’altra interpretazione degli elementi in gioco, e b) del processo metodologicamente trasversale che può richiedere un’attenzione di prossimità a quest’oggetto;
  3. essa constata e prende in esame la diversità antagonista e la multilocazione dei luoghi e delle referenze culturali produttrici di senso nella società attuale;
  4. ma, in una maniera ancora più radicale, la pluralità modifica dall’interno lo “statuto del comprendere” avendo per effetto una nuova organizzazione dell’intelligibilità (una struttura plurale del pensabile), e, con ciò, essa diventa la punta di lancia della coabitazione culturale e dei nuovi rapporti sociali. Quest’ultimo parametro fa della pratica della pluralità la chiave di volta del “voler vivere insieme”, ciò che, ancor più di un risultato di analisi, la qualifica come richiesta etica. Per conseguenza, la pluralità, in qualità di compositrice di pratiche interpretative, della comprensione dei problemi culturali e sociali, della fibra dei legami sociali e del rapporto all’altro, è la formalità sotto la quale propongo di intraprenderne l’indagine e di chiarirne i pro e i contro.

Fin dall’inizio, tuttavia, occorre prendere atto della resistenza che suscita una simile proposizione e identificarne i principali punti d’attrito. In primo luogo, la pluralità, in quanto è inerente alla pratica interpretativa, si scontra con la dominazione classica dell’idea dell’uno come ideale, come origine e finalità del comprendere e come condizione della verità. Si paventa il rischio del relativismo che essa sembra far correre e fa da immagine di fallimento del pensiero in quanto partizione e disseminazione sintomatica della cultura attuale; non sembra valorizzabile che come effimero momento nella mira dell’uno. In secondo luogo, la pluralità scuote l’abitudine di concepire la comprensione e l’interpretazione come un atto della ragione sottomesso a delle regole di logica, sostituendovi la nozione di “pratica interpretativa” come processo dipendente da condizioni [3] di luogo, persona, istituzione, contesto e dalla natura dei problemi (nel complesso di una topografia dei locutori). Cosa che ha per effetto d’inferire un limite di significalibilità degli enunciati che ne risultano. In terzo luogo, la questione de “l’oggetto da comprendere”: la pluralità rimette in questione il modo supposto spontaneo di stabilire l’oggetto da pensare (situazioni, conflitti, questioni religiose, culturali e politiche, o anche questioni d’interpretazione di testo, di nozioni, ecc.) non comprendendolo come “reale” che si dà a pensare, ma come un “costrutto” sempre già segnato dalle condizioni della sua produzione (la configurazione che riceve in quanto oggetto da comprendere contestualizzato, a volte pure circostanziato).
Alla luce di questi riferimenti e dei segni che essi comportano, mi impegnerò, nel seguito del testo, a precisare come la nozione di pluralità influenzi la struttura stessa del pensabile, identificando le diverse alterazioni che vi effettua e mostrando, per ogni livello d’operazione, ciò che implica “praticare la pluralità”.

1- Pluralità e scelta di una questione

Che siano del passato o attuali, il culturale, il sociale, il religioso sono dei campi plurali se vi si designa la molteplicità e la diversità delle forme che li specificano, delle collettività che vi si esprimono e degli approcci che li pensano. È un primo livello di significato dell’idea di pluralità ma che comporta già delle determinazioni per la pratica. La prima e la più immediata è un atto di riconoscimento: riconoscere e prendere atto del carattere particolare e contestualizzato di ogni oggetto da pensare (fosse anche un idea di universalità). Ma nella congiuntura attuale, non è solo il processo di comprensione che si pluralizza, è innanzitutto lo statuto stesso della realtà [4] (religiosa, culturale, sociale e politica) a causa della frammentazione delle unità di senso tradizionali, la pluralità dei punti di riferimento culturale, la multilocazione delle produzioni di senso, il confronto delle visioni del mondo e dei sistemi di valori e i cambiamenti che tutto ciò impone al pensiero e all’azione. Questo fatto condiziona fortemente la scelta di una questione; esso la influenza innanzitutto rivelando l’illusione secondo la quale tale questione è direttamente desunta dalla realtà (che si trattasse d’un problema religioso, culturale, politico o altro) e trasposta come questione da comprendere. La questione non è estratta dalla realtà, vi è prodotta come questione dalla differenza che essa riceve da una lettura della situazione, quando altre letture produrrebbero altre domande. Tale aspetto è particolarmente pertinente nella cultura attuale, in cui la scelta di una questione da trattare, oltre ad essere condizionata dalla pluralità delle letture possibili di una situazione, lo è ancora di più dalla diversità dei riferimenti culturali sostenibili, dei luoghi di produzione di senso dove si incrociano la scuola, l’ambiente, le organizzazioni industriali, professionali, sindacali, l’arte e le chiese.

Questo aspetto della pluralità attuale costituisce un reale condizionamento del modo di pensare il presente, ma permette anche di comprendere meglio il caso in cui si mantengono delle istituzioni e dei comportamenti tradizionali nella modernità progredita. Anche nel caso in cui delle istituzioni del passato si perpetuano, mantenendo delle tradizioni e dei comportamenti, il loro inserimento in una nuova pluralità contestuale ne cambia il significato. E, malgrado ciò che ci sembra a prima vista, esso non è solo dovuto all’influenza pressante del nuovo contesto che verrebbe ad aggiungere altre idee, ma più ancora al modo secondo il quale queste istituzioni assorbono il discorso ambiente che ricevono, lo riorganizzano a partire dal loro proprio discorso e si rimettono in marcia, ma in un’altra dinamica [5]. Le forme del passato che perdurano e le istituzioni tradizionali che si mantengono in un nuovo contesto di pluralità, pur essendo sempre coerenti con la loro identità, non rappresentano più lo stesso fenomeno né hanno più lo stesso significato.

2- Pluralità e pratica interpretativa

Una volta questa pluralità di prima istanza riconosciuta, il processo cognitivo ne opera subito un raddoppiamento attraverso la messa in atto di una pratica interpretativa intrinsecamente plurale. Questa seconda istanza di pluralità è capitale, altrettanto elemento cardine per un “pensare altrimenti” e determinante per il carattere etico della richiesta. Ne darò spiegazione più avanti, ma già questa seconda istanza e le determinazioni che inscrive nella produzione dell’oggetto hanno bisogno di essere oltremodo esplicitati.
Supponiamo un percorso in compendio del processo di comprensione: una volta fissata la scelta di un campo e di una questione da capire, segue la messa in atto di un lavoro di interpretazione. È qui che si gioca l’essenziale: vi si costituisce un nodo di convergenza in cui si incrociano i principali parametri delle operazioni del comprendere. Contrariamente a un’immagine classica (di cui Wittgenstein dice che si è rimasto catturato), pensare non è il fatto di una coscienza liscia sulla quale si imprimerebbe una realtà e che la ragione analizzerebbe applicando delle regole logiche, portando “alla luce del giorno” ciò che sarebbe latente, dissimulato o nascosto nei testi o nei dati. È piuttosto il prodotto di una combinatoria complessa [6] tra un “luogo sociale” (istituzionale, professionale o altri, in cui si incontrano un singolo, l’interprete, con tutta la sua panoplia idiosincrasistica, e un contesto con le sue strutture, le sue regole, le sue coerenze e i suoi interessi), delle “pratiche scientifiche” (con i loro criteri di rigore e di controllo) , o delle “pratiche culturali” (con le loro referenze e le loro appartenenze), “un discorso” e “una scrittura” che introducono una determinazione nel prodotto, aprendo uno “spazio testuale” d’organizzazione del pensiero e provocando una redistribuzione degli elementi prodotti dalla ricerca e dall’analisi che precedono.

A) Pluralità e riconfigurazione della questione in oggetto d’analisi.

Questa seconda istanza è il luogo per eccellenza della pluralità, ed essa ha per primo effetto di riconfigurare, secondo una «topografia contrattuale dei locutori», la questione da trattare e di costituirla in oggetto specifico d’analisi avuto riguardo ai nodi messi in luce. Ne emerge un’indicazione importante per la “pratica della pluralità”: il processo di comprensione costituisce diversi “punti di osservazione” che fan sì che un problema da chiarire e la questione da capire che ne esce, una volta configurati in oggetto specifico d’analisi, non rappresentano per forza lo stesso fenomeno né hanno lo stesso significato di quello di prima istanza: dipende dalla chiave d’analisi con la quale si formalizza la riconfigurazione [7].

B) Pluralità e messa in opera delle procedure d’interpretazione

Qui, diverse connessioni e interfacce si incrociano e si intersecano ad ogni livello e tra i diversi livelli di pluralità. Dei legami si stringono da una parte, tra i luoghi sociali, le pratiche interpretative e le pratiche discorsive, e, dall’altra parte, tra questo insieme analitico e la pluralità culturale del terreno in cui la questione si pone. È il momento in cui si negoziano le appartenenze, le lealtà, le convinzioni e le intenzionalità con le esigenze dell’analisi e la finalità del discorso. Ciascuna e ciascuno ha un luogo da cui lui o lei pensa e parla e la sola idea di soggettività non è sufficiente a darne conto; occorre in aggiunta includere i parametri della produzione e dell’operatività con ciò che comportano di aleatorio e di circostanziale [8]. Si percepisce facilmente che una tale situazione può produrre delle connessioni, delle interfacce e dei confronti che modulano il processo d’insieme ma in un modo che non è né recuperabile né chiarificabile dall’analisi. Comprendere opera dunque su un rumore di fondo, una sorta di movimento browniano, e le operazioni che vi si effettuano sono singolari, contestualizzate e fortemente segnate da una maniera particolare di rapportarsi all’oggetto e al pensabile. Si vede ugualmente quanto tutto ciò influenzi gli enunciati prodotti dall’analisi, costituisce i loro limiti di significabilità e sottolinea il modo secondo il quale la comprensione, a sua volta, mira il reale e lo manca.

Certo, si può pensare di annullare i differenti divari che sciamano lungo tutto il percorso interpretativo, pretendendo di otturarli con delle procedure metodologiche che mirerebbero, con un ritorno della prospettiva enologica, a ricondurre la pluralità sotto la cupola di un principio esplicativo a strapiombo, supposto oggettivo e uniforme. Ma, presso de Certeau, ciò che impone una pratica interpretativa non sono principalmente le regole di una disciplina con il suo quadro teorico e la sua metodologia, bensì una “attenzione di prossimità” accordata a un oggetto da un soggetto concretamente situato e da una posizione identificata. Questa nozione “di attenzione di prossimità” è più pregnante di quanto non sembri a un primo sguardo. È coestensiva all’idea di pluralità poiché è questa che identifica le richieste dell’oggetto, confronta il processo d’analisi mettendo così in luce ciò che non giunge a chiarire e, da lì, legittima un processo trasversale che mette a profitto i diversi saperi richiesti dalla comprensione dell’oggetto. Il rigore e le regole metodologiche del “fare una buona analisi” non vi sono sottostimate, anzi sono rigorosamente richieste, ma non sono la sola figura dell’operazione: esse entrano in gioco con altri figure, cosa che permette di relativizzarne l’egemonia.

Il processo d’interpretazione implica dunque che una questione da comprendere è già pluralizzata dal campo in cui essa si pone e, che in aggiunta, questa pluralità si raddoppia dall’operazione che la riconfigura in oggetto specifico di analisi a partire da parametri di luogo, di metodi e di discorsi. Ma, a ritroso, questo provoca un effetto non trascurabile per la pratica della pluralità: sia un’alterazione del rapporto al testo, al documento, ai dati. Ovvero che se l’operazione di produzione di una questione in oggetto specifico d’analisi suppone un “raddoppiamento” di pluralità dagli incroci che vi si operano tra le intenzionalità, i metodi e le finalità, la presa in conto di questo fatto obbliga un lettore a un lavoro di “sdoppiamento” nel suo rapporto al testo che studia, al documento che consulta e ai dati di cui dispone. Altrimenti detto, il suo dispositivo di comprensione di un testo (ossia: la questione che si pone e il processo che si dà) incrocia un altro dispositivo, quello del testo, (ossia: a quale questione rispondeva e in quale approccio l’ha trattato), e questo lo porta a distinguere i due dispositivi e, nell’intersezione, a vedere l’altro dispositivo come evento che altera il suo processo e permette d’instaurare una comprensione differente della sua questione.

3- Pratica interpretativa e pratica significante: la pluralità come paradigma

Ogni pratica interpretativa è una pratica culturale e dunque una pratica significante. Una posizione ermeneutica, anche sostenuta su una teoria scientifica dell’interpretazione con una conseguente metodologia, suppone innanzitutto un rapporto al culturale, al sociale, al religioso, al politico e al luogo da cui le si pensa, (insomma a ciò che il sapere mira con il “rapporto al reale”). La coscienza di questo rapporto può essere sospesa, messa tra parentesi, per far emergere uno spazio analitico più rigoroso (più asettico), ma ciò che è sottratto dal modo di produzione, riappare nel prodotto.

Comprendere e interpretare vuol dire anche testimoniare e partecipare. La pluralità, più che un problema epistemologico, si impone dunque come un problema culturale, sociale e religioso, e occupa un posto paradigmatico in una cultura in cui “il rischio del senso è allo scoperto, senza la protezione di una ideologia inglobante”. Ne consegue che la pluralità deve essa stessa essere pensata nel suo doppio effetto: il suo apporto all’interpretazione (pratica interpretativa) e il suo apporto alla situazione in questione (pratica significante).

a) Abbozzo per primo a grandi linee l’apporto all’interpretazione, cioè, ciò che implica epistemologicamente una struttura plurale del pensabile

Per definizione, l’uno e il plurale si oppongono, ma la prospettiva ontologica aperta da questa affermazione non è quella che permette di pensare la pluralità presso de Certeau. Prima di tutto la pluralità non è per lui il contrario dell’uno, ne è piuttosto la differenza: essa non viene a pluralizzare ciò che produce la prospettiva dell’uno riconoscendo “la legittima diversità di opinioni”, riprende in modo nuovo l’idea stessa del pensabile, ponendolo altrimenti. Non è sull’orizzonte dell’essere che si disegna l’architettura del pensabile, è in rapporto a un “fare” (fare un’analisi, fare della teologia, della sociologia, della filosofia ecc). La fabbricazione e le sue regole sono il modo che impone la pluralità delle operazioni e colui che dona loro senso, ed è la nozione di “attenzione di prossimità all’oggetto” (vicina a una problematica di cognizione e di psicologia sperimentale) [9] che stabilisce e organizza i processi richiesti. Al posto di essere compreso fenomenologicamente come la marcia conquistatrice di un principio interpretativo che prende il reale ri/presentato nell’oggetto e lo macina nelle sue verità interiori, pensare diventa piuttosto una coerenza tra una pluralità di parametri: le procedure dell’analisi, i postulati che implicano e gli oggetti che determinano. Il concetto diventa “evento”, ovvero, che in luogo di essere innanzitutto pensato come nuovo principio produttore di verità, è pensato come introducente un cambiamento dello spazio nel quale il discorso si produce e vi induce un’altra interpretazione.

La trascrizione dettagliata di un percorso interpretativo rischia di riportare una pratica in costante dislocamento a un tracciato, una linea, che la totalizza e la riduce a una traccia grafica, quando il movimento browniano insito ci mette in circolazione ben altre figure rispetto alle procedure dell’arsenale di comprensione. Nello sforzo di appropriazione della nozione di pluralità presso Michel de Certeau si è favoriti a mantenere ogni enunciato in tensione tra due figure maggiori del suo pensiero: da una parte, quella della fabbrica, della fabbricazione, che suggerisce di isolare e di smontare le regole delle procedure interpretative in maniera analoga alle regole di fabbricazione in un’azienda (studiabili, controllabili e verificabili), e d’altra parte, all’opposto, la figura che si evince dal Giardino delle delizie: l’indisponibilità radicale del reale, se ciò non è attraverso una finzione nella quale è preso di mira e mancato. Ci sarebbe ancora da mostrare come, tra queste due figure maggiori, altre figure intervengono, per infiltrazione, sotto un modo aletico (secondo un valore di verità), un modo epistemico (secondo un valore di conoscenza), un modo deontico (secondo un valore di obbligazione). Intervenute nell’indefinita diversità delle operazioni enunciatrici, delle inflessioni corrispondono – a delle figure del pensiero: il mare e il suo bordo e le tracce nella sabbia – a delle figure del soggetto – il mistico e l’economico. Occorre mantenere queste figure attive, poiché il tracciato, così riduttivo, strappa l’operazione ai tempi della sua produzione per stenderla su una superficie leggibile in cui si sostituisce alla pratica e fa dimenticare il modo di essere al mondo che l’ha orientato [10].

b) Prendere i rischi del presente

Ne vengo, terminando, all’apporto della pluralità come pratica significante per la questione messa in causa. Nelle vicende umane l’analista è anche testimone e parte partecipante. Lo è per i suoi enunciati, ma questi, in più di un chiarimento per la comprensione, sono anche delle indicazioni per la valorizzazione e l’azione. E questo, anche quando sono formulati esplicitamente e formalmente in termini di analisi. La maniera di essere al mondo che il loro modo di produzione suppone, modula il prodotto, talvolta impercettibilmente ma spesso in un modo localizzabile [11]. Ora, nel caso che ci interessa, la pratica della pluralità oggi, malgrado la discontinuità che opera in rapporto alla dominazione classica dell’uno, è tuttavia in continuità con il passato. Nella misura stessa in cui si può rintracciare l’omogeneità esistente tra i diversi periodi di una tradizione e i loro tempi, si indica in tal punto la necessità, ovvero l’urgenza di conformarsi al nostro [12]. Ora, il nostro è, all’evidenza, culturalmente, socialmente e religiosamente plurale e, inoltre, espone riflessivamente la legittimità delle ragioni d’esserlo. Prendere i rischi del presente è riconoscerne la fisionomia plurale, la validità delle differenze e della loro coabitazione, la diversità delle referenze culturali e religiose, e la pluralità dei luoghi produttori di senso, ed è anche riconoscere la pluralizzazione interna del pensiero che l’interpreta.
Ora, è precisamente qui che il ragionamento inciampa o più precisamente che è confrontato a un posizionamento epistemico opposto, in cui il presente culturale è denunciato come divisione, frammentazione, fallimento del pensiero in un relativismo debilitante, quando, dal suo lato, il soggetto economico è assemblato, mondializzato e formattato da un dispositivo uniformizzante che si auspica applicabile ugualmente al culturale, (pensiamo ai dibattiti che provoca la clausola dell’eccezione culturale nei trattati commerciali). Si è dunque in presenza di più forze d’attrazione: il polo economico uniformizzante e il culturale pluralizzato in poli eterogenei e allo stesso tempo antagonisti. Ed è un fenomeno nuovo in cui pezzi interi dell’esperienza umana si trovano senza i punti di riferimento che danno un significato alla condotta di vita. È qui che il carattere etico della pratica della pluralità prende il suo valore, e questo in due maniere. Da una parte, prendendo atto della pluralità, essa la legittima riconoscendo che in realtà “il significato dell’esistenza umana è identico alle forme multiple che assume il rischio di essere uomo”; esistere umanamente è inscrivere la propria impronta in quel che altri “danno da vivere e da pensare” [13]. Il pensiero dell’uno assegna un posto a ciascuna e a ciascuno mentre la pluralità fa posto all’altro. Praticare la pluralità è dunque, a tal titolo, una pratica significante in ciò che mi rinvia alla mia differenza nella mia comprensione delle cose, alla coscienza dei limiti della mia posizione: non ha di che annullare l’altro ma, al contrario, apre lo spazio che lo attende. D’altra parte, tale questione raggiunge, presso Certeau, una postura epistemica fondamentale: davanti a una difficoltà epistemologica occorre privilegiare la domanda etica. Ora, questo ci mette in pieno nel dibattito attuale. Le rivendicazioni identitarie e le rappresentazioni che vi si affrontano in termini di memoria, di visioni del mondo e di sistemi di valori, paralizzano le culture in un vicolo cieco. L’egemonia del pensiero dell’uno, sempre all’opera sottobanco nel soggetto economico, milita per l’omogeneizzazione delle culture, mira ad appianare le differenze e a uniformizzare le rappresentazioni. È un vicolo cieco e una minaccia davanti alla quale Certeau dice che occorre lavorare acciocché la nostra epoca sia una genesi del plurale [14]. È la forma che prende la domanda etica del nostro tempo. La questione diventa: come lavorarci?
Ciò che propongo mi sembra nella stessa direzione e riprende le articolazioni di una struttura plurale del pensabile. La prima cosa di cui occorre prendere atto, è che la natura etica della domanda cambia la questione: essa la situa nell’ordine del volere. La questione non è più di sapere dove ci conduce la diversità delle nostre rappresentazioni ma dove vogliamo andare. La seconda cosa, è di prendere atto di come la pluralità altera, trasforma il rapporto con l’uno. Essa non lo annulla, anzi, diventa l’alterità (ciò che arriva d’altro) che permette d’instaurarne una comprensione differente. L’idea di unità conserva la sua forza d’attrazione ma, invece di portare sull’identità e l’uniformità delle rappresentazioni, essa porta sul “voler vivere insieme” e cambia la comprensione del percorso per giungervi. Inversamente, le differenze non sono più pensate come dei limiti di un rapporto con l’altro, ma diventano l’indice e il luogo di un lavoro in cui li si interroga su ciò che fanno dell’altro, quale posto gli fanno e come contribuiscono al vivere insieme. Son ben cosciente del cambiamento di paradigma che comporta una tale proposizione, ma mi sembra che l’invito a pratica la pluralità ci guida. Occorre consentire a non comprendere più la coscienza come presenza a sé, il pensare come presenza dell’essere, come presenza del reale, come presenza della verità [15], ma come una laboriosa e paziente oggettivazione del volere.

[trad. it. Edoardo Prandi]

Opere di riferimento

Michel de Certeau
(EH) L’écriture de l’histoire, Gallimard, NRF, Paris 1975 – La scrittura della storia, trad. it. Ieronimidis, Jaca Book, Milano 2006 (1975);
(IQ) L’invention du quotidien, 1 Arts de faire, coll. 10/18, 1980 – L’invenzione del quotidiano, trad. it. M. Baccianini , Edizioni Lavoro, Roma 2010 (2001);
(CP) La culture au pluriel, coll. 10/18, 1973;
(FC) La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987 – Debolezza del credere, trad. it. S. Morra, Roma Città Aperta, Roma 2006;
(AH) L’absent de l’histoire, coll. Repères, Mame, Paris 1973;
Leszlek Kolakowski, Chrétiens sans église, La Conscience religieuse et le lien confessionel au XVIIème siècle, Gallimard, NRF, Paris 1969.
Jeremy Ahearne, Michel de Certeau, Interpretation and its other, Standford University Press, Standford, CA, 1995.
Jonathan Crary, Suspensions of Perception, Attention, Spectacle and Modern Culture, MIT Press 2001.

Note

[1] – Indico le principali opere a cui si riferisce la mia narrazione epistemologica. EH, Production d’un lieu, pp. 27-122; Questions de méthode, pp.123-130; La formalité des pratiques, pp.152-214; IQ, pp. 31-176; FC, Le mythe des origines et Prendre les risques du présent, pp. 67-136; La rupture instauratrice, pp.187-226; CP, Les nouveaux marginalismes, pp.111-186; AH, Avant-propos, pp.7-9; La mort de l’histoire globale: Leszlek Kolakowski, pp.109-114; Le noir soleil du langage: Michel Foucault, pp.115-134.
[2] – AH, «C’est l’altérité (ce qui arrive d’autre) qui crée la césure grâce à laquelle peut s’instaurer une «compréhension» différente, c’est-à-dire la combinaison entre un déplacement dans la topographie contractuelle des locuteurs, et une autre interprétation des documents. J’y vois le symptôme d’une loi plus générale: le changement de l’espace où le discours se produit, a pour condition la coupure que l’autre introduit dans le même (c’est l’évènement), et pour effet une nouvelle organisation de l’intelligibilité (une structure du pensable)» p. 7.
[3] – EH, L’opération historiographique, pp. 63-120.
[4] – CP, pp. 160-165.
[5] – EH, «…pour déceler l’ordre nouveau qui s’inscrit dans les comportements traditionnels, l’analyse de leurs contenus ne suffit pas: les mêmes idées ou les mêmes institutions peuvent se perpétuer, au moment où elles changent de signification sociale».
«Un système de pensée se spécifie sans doute par l’invention de quelques notions de plus, mais bien davantage par une organisation différente des idées qu’il reçoit d’ailleurs, c’est-à-dire par une manière propre de les «faire marcher», dans la totalité d’un discours, de même des croyances et des institutions se mettent à «marcher» différemment et trahissent une dynamique d’un autre type…» p.166.
[6] – EH, pp. 63-120.
[7] – Cfr. Kolakowski «Mieux vaudrait estimer que le même (au sens ontologique) fait est tout simplement quelque chose d’autre en fonction du caractère du lien que lui confère l’observateur: lien psychologique, historique ou doctrinal…c’est précisément la structure qui confère un sens au fait; donc le fait a un sens par référence à chacune de ces structures considérées à part, – et chaque fois un sens différent – et non par référence à toutes ces structures considérées ensemble» p. 784, citato da Certeau in AH, p. 112.
[8] – EH, «Certes, il n’y a pas de considérations, si générales qu’elles puissent être, ni de lectures si loin qu’on les étende, capables d’effacer la particularités de la place d’où je parle et du domaine où je poursuis une investigation. Cette marque est indélibile. Dans les discours où je mets en scène des questions globales, elle aura la forme de l’idiotisme: mon patois figure mon rapport au lieu.» p. 63.
[9] – Cfr. Crary «…it is possible to position Schopenhauer not only as the overturning of a kantian model of synthesis, but as an early and decisive nineteenth –century assault on the very possibility of a philosophy of consciousness. Distraction and forgetfulness (suggesting sublimation and repression) became for Schopenhauer powerful components within the fluid economy of psychic experience. All the mental states (sleep, trance, fainting, daydream, dissociation) that classical thought had marginalized or excluded from its theories of knowledge now took center stage as parts of psychological accounts of normative subjectivity. Within a more generalized historical frame, we see the disintegration of the epistemological tradition running from Descartes to Kant for which consciousness or the cogito is the ground of all knowledge and certitude. For it is only when consciousness ceases to have an unquestioned fundational priority that attention emerges as a problem – when a subject ceases to be synonymous with a consciousness that is essentially self-present to itself, when there is no longer an inevitable congruance between subjectivity and a thinking “I”…”», p.57.
[10] IQ, ecco un buon esempio in cui Certeau mantiene un enunciato nella movenza di un’altra figura, quella dell’enunciazione voici un bon exemple où Certeau maintient un énoncé dans la mouvance d’une autre figure, celle de l’énonciation pedonale (l’attività multiforme della marcia, dell’erranza) «Les relevés de parcours perdent ce qui a été: l’acte même de passer. L’opération d’aller, d’errer, ou de «relicher les vitrines», autrement dit l’activité des passants, est transposée en points qui composent sur le plan une ligne totalisante et réversible. Ne s’en laisse donc appréhender qu’une relique, posée dans le non-temps d’une surface de projection. Visible, elle a pour effet de rendre invisible l’opération qui l’a rendue possible. Ces fixations constituent des procédures d’oubli. La trace est substituée à la pratique. Elle manifeste la propriété (vorace) qu’a le système géographique de pouvoir métamorphoser l’agir en lisibilité, mais elle y fait oublier une manière d’être au monde.» (p.180).
«De l’énonciation piétonnière qui se dégage ainsi de sa mise en carte, on pourrait analyser les modalités, c’est-à-dire les types de relation qu’elle entretient avec les parcours (ou «énoncés ») en leur affectant une valeur de vérité (modalités «aléthiques »du nécessaire, de l’impossible, du possible ou du contingent), une valeur de connaissance (modalités « épistémiques « du certain, de l’exclu, du plausible ou du contestable) ou enfin une valeur concernant un devoir-faire (modalités “déontiques” de l’obligatoire, de l’interdit, du permis ou du facultatif) (18). La marche affirme, suspecte, hasarde, transgresse, respecte, etc., les trajectoires qu’elle «parle». Toutes les modalités y jouent, changeantes de pas en pas, et réparties dans des proportions, en des successions et avec des intensités qui varient selon les moments, les parcours, les marcheurs. Indéfinie diversité de ces opérations énonciatrices. On ne saurait donc les réduire à leur trace graphique.», p.183.
[11] – Vedi nota 8.
[12] – FC, lezione di libertà dal passato: « ….dans la mesure où l’homogénéité entre chaque étape de cette tradition (jésuite) et son temps nous indique la réalité et l’urgence actuelles d’une semblable conformation au nôtre», p.76-77.
[13] – CP, pp. 163-64.
[14] – CP, p. 162.
[15] – Vedi nota 9, testo di J. Crary.


Michel De Certeau un rabdomante della luce


di Gabriella Caramore

 

Michel De Certeau è una delle figure che più mi hanno accompagnata in questi anni di ricerca intorno alle questioni del religioso. Ho sempre trovato in lui ispirazione e soccorso tutte le volte che ho faticato a mettere a confronto la specificità della vicenda cristiana con le specificità delle altre esperienze di fede o di conoscenza. Più ancora, la sua capacità di intrecciare il sapere religioso con il sapere di altri linguaggi, altri codici, altri lessici mi ha fatto sempre pensare a lui come a un profeta contemporaneo della pluralità.
Per questo mi piace applicare a lui una espressione che usa André Neher, ripresa dalla Qabbalà, quella di un “rabdomante della luce”. I rabdomanti della luce sono quelli che riportano a Dio le scintille di luce della conoscenza, che senza di loro rischierebbero di andare perdute. De Certeau cerca la luce, scintille di luce perdute, sotto la crosta della storia, sotto la terra arida della convenzione, dell’abitudine, della pigrizia mentale, del potere idolatrico delle comunità religiose, e le riporta in superficie, come sorgenti di acqua viva, ricostruendo così una mappa multiforme – ma geometrica – dei saperi e della storia, delle esperienze nelle vite dei singoli e delle comunità. È così che ricostruisce una “pluralità delle strade” in cui la consapevolezza delle differenze continuamente rianima i punti morti, ridona leggerezza alle zavorre, abbatte le resistenze idolatriche che costellano molte tappe dell’esperienza religiosa.

Ma, appunto, è l’esercizio dell’intelligenza della storia che dà sostegno alla pratica della pluralità. Oppure, si potrebbe anche dire invertendo i termini, che praticare la pluralità esige un lavoro dell’intelligenza, un intus legere, un capire in profondità le cose del mondo. La storia dell’esperienza religiosa da un lato ha sempre espresso l’esigenza di un “compito” dell’intelligenza, il superamento di un confine della conoscenza: tutte le grandi esperienze di fede hanno manifestato, al loro sorgere e nei momenti cruciali della loro storia, uno sporgere dell’intelligenza oltre i limiti della conoscenza. Ma è anche vero che tutte le storie delle religioni hanno espresso, per tempi troppo lunghi, ottusità idolatrica, pigrizia della mente, chiusura di ogni comprensione, seppellimento dei dubbi, irrigidimento del cuore e della mente di fronte all’irruenza del nuovo, al movimento, alla dinamicità delle cose.
Non c’è da scandalizzarsi. È comprensibile questo. Mettere in gioco “Dio” significa mettere in gioco i limiti del conoscibile, scrutare dentro i segreti del cosmo, dei tempi infiniti, degli spazi incommensurabili. Ma mettere in gioco “Dio” significa anche chinarsi sull’altro grande enigma dell’esistenza, il cuore insondabile delle creature. “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos” (Eraclito).
Ma è per questo che, dice De Certeau, occorre un cuore pensante, un cuore intelligente. “Come stupirsi che vi sia un dovere di intelligenza, dal momento che Dio, anche su questo punto, ci vuole a sua immagine? Noi gli attribuiamo la nostra stupidità nell’attribuirgli i nostri desideri, ma egli non abbandona i suoi figli nella loro stoltezza. La stolidità è una di quelle ‘cose cattive’ che Gesù menziona insieme con gli omicidi, la dissolutezza, l’inganno o l’invidia (cfr Mc 7,21-23)”.
Le differenze che il mondo ci offre possono essere colte – o elaborate, non in un senso timoroso, ma con il coraggio del rischio – solo da un cuore che pensa. Un cuore che abbia intelletto. Per questo l’ “elogio della differenza” non è mai scindibile, in De Certeau, dall’ “elogio dell’intelligenza”. Le sue parole su questo sono come una sferzata contro ogni tentazione di assopimento, di accondiscendenza, di sonno della ragione, di velato disprezzo per ogni forma non domestica di conoscenza. “Più rapida e più leggera di noi, l’intelligenza vede al di là dei nostri passi: essa precede il camminare, supera le posizioni acquisite, prende le distanze e non si attacca a quel pezzo di terra che occupiamo. Non si riposa né sull’azione compiuta, né sull’idea accolta, né sul bene posseduto. L’intelligenza disturba, come diceva il vecchio Anassagora, passa, già estranea, a questo luogo particolare, esplorando una patria più vasta. Essa critica, per ridurre non solamente l’indeterminatezza in cui ci lasciano le illusioni del cuore, ma anche altre illusioni, quelle dello spirito, che non colgono del cuore se non la superficie”.

Ed è qui, in questo “compito” di un pensiero libero e critico – quasi un “comandamento” – che si innesta l’altro grande filone del lavoro di De Certeau che penso profondamente proficuo per chiunque si trovi a “lavorare” intorno al religioso in questa nuova fase del mondo. Smetterla di pensare il cristianesimo, come ogni altra fede peraltro, seguendo canoni, autorità, istituzioni, convenzioni – irrigidendolo in una gabbia immobile che lo protegge, ma solo in superficie – e cominciare invece a pensarlo e a viverlo come “debolezza del credere”, sapendo che ogni specificità religiosa è “evanescente”, che ogni esegesi, dopo essere stata esperienza di liberazione, può diventare una nuova fortezza dentro la quale non vi è esperienza liberatoria del credere, ma prigione per sé e oppressione per gli altri.
Oggi non è più possibile sottoscrivere affermazioni religiose che pretendano di essere verità, che pretendano di stabilire il senso della vita sociale o individuale. Oggi “è necessario innanzitutto smettere di supporre universale (vera per tutti) questa opzione singolare che è la fede cristiana, ma smettere anche di restringere all’ideologia di un gruppo particolare (cristiano) la base di una riflessione teologica”. Occorre uscire pertanto dalle istituzioni teologiche che paralizzano “ il lavoro di articolazione di una esigenza spirituale sulle modalità obiettive dell’articolazione sociale”.
Così il senso del cristianesimo oggi lo si può ritrovare soltanto in un confronto aperto – “eccessivo” – con la storia globale, e elaborando una esigenza di tipo critico che De Certeau chiama il “lavoro del negativo”. Solo facendo salve queste due direttive, e seguendo un “cammino non tracciato”, si può fattivamente parlare oggi di una prospettiva cristiana, che non pretenda nessun primato, che non presuma alcuna superiorità, ma che ritorni alla sua dimensione di “strada”.
Questi pensieri Michel De Certeau li scriveva sul finire degli anni Ottanta del secolo passato. Mi sembrano oggi un passaggio obbligato per chi voglia provare a vivere il cristianesimo in maniera radicale nel millennio appena iniziato. “Questa passione dell’altro non è una natura primitiva da ritrovare, non si aggiunge neppure con una forza in più, o un abito, alle nostre competenze e ai nostri dati acquisiti. È una fragilità che spoglia le nostre solidità e introduce nelle nostre forze necessarie la debolezza del credere”.*

Note

*M. de Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, 176. Vivere il cristianesimo come “esperienza di fragilità”, “mezzo per diventare ospite di un altro che inquieta e fa vivere”, “accettando di essere deboli”. Rinunciando alla prospettiva di una universalità dei cosidetti “valori cristiani”, e accogliendo la “debolezza del credere”. Che è la sola, mi sembra, che sfugge al rischio della prepotenza idolatrica.
Ecco questo intreccio tra dovere dell’intelligenza, spirito critico, accoglienza della debolezza mi sembra che siano la mistura in cui cresce la dimensione della pluralità.

Pluralità, empowerment e infermieristica

Contributi di Michel de Certeau

Juan D. González-Sanz

 

Per tutti noi è evidente che il lascito intellettuale di Michel de Certeau è vivo e plurale. Settimanalmente una semplice notifica di Google ci pone davanti agli occhi decine di nuove pubblicazioni nelle quali vengono citate le sue opere. Dal mondo degli studi culturali a quello della teologia, Certeau è un punto di riferimento per centinaia di persone che si dedicano ovunque alla ricerca nell’ambito umanistico e sociale. La lettura che tutte loro fanno dell’opera di Certeau, e i modi diversi di interpretarla, rappresentano già una prima forma, molto importante, di praticare la pluralità.

Negli ultimi anni anche io sono stato uno di quei lettori plurali e da quell’interesse è nata una tesi di Dottorato in cui ho cercato di dimostrare cosa sarebbe stata la sua antropologia del credere a partire da una revisione di tutta l’opera. Al di là dei meriti che posso avere e che lascio a voi giudicare, credo che il mio lavoro sia utile per far conoscere Certeau in Spagna (dove la sua diffusione è sorprendentemente scarsa) con un approccio all’opera sistematico e non frammentario.

So perfettamente che oggi non dirò nulla su Certeau che non abbiate già sentito e sostenuto mille volte nei vostri lavori e nelle vostre conferenze. Eppure in questo momento, sebbene con estrema sintesi, desidero mostrarvi un nuovo percorso, poiché voglio condurre l’eredità certiana nell’ambito infermieristico scarsamente influenzato da questa. Impegnato professionalmente da quindici anni nel meraviglioso lavoro di assistenza e, nello specifico, nella maieutica e nelle sue cure perinatali, sono convinto che i contributi che l’opera di Michel de Certeau può apportare a riguardo siano enormi.

Desidero spiegarvi, in concreto, come l’idea dell’empowerment può essere concretamente utilizzata nel settore della cura infermieristica e nell’ambito perinatale.

Nel farlo bisogna partire da una seconda forma del praticare la pluralità che, a mio avviso, ha un interesse speciale. Di fatto Certeau ci invita a prendere coscienza della profondità spirituale dell’incontro con l’altro (“la relazione è lo spazio esistenziale”) e della necessità di non mascherare o nascondere la conflittualità legata a tale incontro. Praticare la pluralità, nella seconda accezione, significa accogliere con intensità la realtà dell’incontro con l’altro e non rifuggire il dolore che questo abbraccio genera.

“E non è un caso se tutta la loro cultura si elabora nei termini di rapporti conflittuali o competitivi fra i più forti e i meno forti, senza che alcun spazio, leggendario o rituale, possa interporsi assicurando una neutralità”.

La relazione con gli altri è, nel caso degli operatori sanitari professionali, molto più che un’alternativa dipendente dall’alto o dal basso livello di socializzazione del singolo individuo: è un’esigenza basilare di tale lavoro. E, nel concretizzare ogni giorno la precedente affermazione di Certeau, questa relazione diviene un campo minato di conflitti. Per quanto riguarda il processo riproduttivo e il momento del parto, la divergenza di interessi contrapposti (delle donne e delle famiglie, degli operatori sanitari professionali, delle istituzioni sanitarie etc.) è inesorabilmente presente.

Nel presente ambito ha senso parlare di empowerment, termine di origine anglosassone integrato dalla Real Academia de la Lengua Española con il significato di “rafforzare un individuo o un gruppo sociale svantaggiato”. Ultimamente il suo utilizzo nel campo della salute perinatale è aumentato in maniera esponenziale al fine di riconsiderare, migliorare e consolidare il ruolo delle donne come soggetti protagonisti di tutti i processi di cui fanno parte, specialmente quelli legati alla gravidanza, al parto, al puerperio e all’allattamento.

Inoltre, come ha affermato uno dei più grandi pensatori intellettuali di oggi:
“Esiste la storia del potere perché questo non è mai uno solo ma plurale. Non c’è altra forma di conoscenza del potere eccetto quella che descrive il modo in cui i poteri plurali lottano nella storia.”

In tal senso è necessario scrivere e raccontare la storia dei poteri che divergono ogni giorno nelle sale parto, nei reparti di maternità degli ospedali, nei consultori dei centri per la salute e in tutte quelle strutture in cui gli interessi corporativi o professionali si scontrano con i desideri e le esigenze di donne determinate e diverse. Immaginate quanto l’opera di Michel de Certeau può creare grandi possibilità a tutti coloro che cercano di aumentare l’empowerment delle donne e delle proprie famiglie nel processo riproduttivo e che lottano affinché diminuisca il potere degli operatori sanitari professionali, lasciando spazio ad altri poteri alternativi.

Da un lato, Certeau ci offre delle categorie per capire lo sviluppo dell’azione dell’anello più debole della catena: la donna. Dal mio punto di vista, L’invenzione del quotidiano, il testo più conosciuto e citato da Certeau (solo in Scopus si registrano più di 6000 citazioni della sua versione inglese) è, di per sé, un manuale di empowerment. Questo libro fornisce la struttura teorica che spiega le millenarie pratiche di resistenza delle donne contro l’apparato del controllo sociale in cui spesso si trasforma il sistema sanitario (specialmente nel ramo ostetrico-ginecologico).

Ad ogni modo, l’opera certiana è capace di offrire molto più che la contrapposizione tra tattiche e strategie. Passando da un estremo all’altro, Certeau può aiutare a trasformare il polo del conflitto relativo agli operatori sanitari professionali, influenti padroni della maternità, attraverso i suoi studi sul credere e sull’“energia motrice”. Quali convinzioni sostengono i comportamenti di denominazione in tanti operatori sanitari professionali dell’ostetricia? L’opera di Certeau comporta una chiara presa di coscienza sull’influenza che le convinzioni hanno nella nostra forma di decodificare il mondo e di relazionarci con gli altri al suo interno. È fondamentale farne uso per cogliere le convinzioni dei dominatori e cercare di cambiarle.

Del resto, oltre alle analisi delle tattiche e alla valorizzazione delle convinzioni che generano le pratiche, l’infermieristica deve ancora confrontarsi con il motto di Certeau che caratterizza questo congresso: praticare la pluralità. La sensibilità di Certeau nei riguardi della diversità è la chiave di accesso all’empoderamiento. Una delle sue opere a mio avviso più belle, Lo straniero o l’unione nella differenza, apre dinanzi a ogni maieutica il fiore della riconoscenza dell’alterità di tutti; un fiore che dovrebbe osservare e accarezzare senza fretta se vuole imparare a rispettare i desideri e le preferenze delle donne di cui si occupa.

Per concludere, spero che in questo breve intervento, come accaduto a me inspiegabilmente, abbiate preso coscienza del tesoro inestimabile che l’opera certiana rappresenta per l’infermieristica nell’ambito della salute perinatale. I grandi sforzi che verranno fatti nei prossimi anni per portarlo alla luce saranno utilissimi al fine di arricchire il corpo degli studi certiani e la riflessione infermieristica sull’empoderamiento. Mi auguro per noi che siamo chiamati a portare a termine tale compito, perché conosciamo e amiamo entrambi i mondi, di essere all’altezza di una sfida appassionante e non meno necessaria da compiere.

[trad. it. Monica Elisei]

Ref:

  1. Michel de Certeau, Cristianesimo in frantumi, trad. it. S. Morra, Cantalupa (TO) 2010 (ed. or. 1974). Torna su
  2. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 201O (ed. or. 1990). Torna su
  3. Villacañas J.L., Historia del poder político en España. Barcelona: RBA, 2004. Torna su
  4. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2010 (ed. or. 1990). Torna su

Daniel Berrigan e suo fratello Philip – Sacerdoti e militanti pacifisti

Il 30 aprile 2016 è morto, all’età di 94 anni, Daniel Berrigan, gesuita, poeta, militante nei movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam negli Stati Uniti degli anni ’60. Insieme al fratello Philip (1923-2002) – il quale, appartenente all’ordine giuseppino, abbandonò lo stato sacerdotale nel 1970 – fu animatore di grandi campagne antibelliche e perseguitato per anni dall’FBI.

In un saggio incluso in Debolezza di credere (1987; tr.it.2006) – Coscienza cristiana e coscienza politica: i Berrigan – Certeau ha tracciato un indimenticabile ritratto dei due fratelli, di cui riportiamo qualche brano:

“Il 9 ottobre del 1968 Daniel Berrigan è stato condannato a tre anni di prigione, per aver, il 17 maggio precedente, bruciato con il napalm delle cartoline di precetto trafugate dall’ufficio di reclutamento militare di Catonsville (Maryland). Egli aveva partecipato al colpo organizzato da suo fratello Philip, recidivo, e da sette altri amici. La sua pena sarebbe diventata effettiva il 9 aprile del 1970. A quella data, optò per la clandestinità. La polizia era sulle sue tracce. Egli si spostava in ambienti clandestini nascosti sotto la superficie dlla società americana. Poi, improvvisamente, faceva irruzione in una situazione pubblica: in una chiesa, durante un convegno, si spiegava. Quando i poliziotti arrivavano, era già scomparso.

(…)
“L’uomo ricercato voleva essere il testimone della speranza. Non accettava l’emorragia del senso e la putrefazione delle ragioni per vivere. «Nuove forme di azione sono necessarie… Dobbiamo almeno provare…».

(…)
Poeta conosciuto negli USA, professore alla Cornell University, prete cattolico, gesuita. Daniel Berrigan non aveva nulla del giovane esaltato. Aveva 50 anni. Una intransigente fedeltà alla sua fede e al suo sacerdozio, un’ampia formazione grazie ai numerosi viaggi all’estero, una vasta cultura religiosa e letteraria: niente di tutto ciò può fare di lui un teppista. Se, per la prima volta, ha violato positivamente la legge, è stato dopo molte esitazioni,e spinto da una preoccupazione centrale: «cercare strade nuove» che «aprano prospettive», permettano un «risveglio» dalla vita assopita o alienata in un sistema, compiere così «opera poetica» e «lottare per una nascita» attraverso una poetica della coscienza americana.
Suo fratello Philip, di due anni più giovane, religioso giuseppino, prete cattolico, anche lui condannato alla prigione per aver commesso, e d’altra parte ispirato, la stessa «azione simbolica» di Catonsville, ha intrapreso lo stesso «compito erculeo».

(…)
«Per me – scrive Philip – e Daniel dice altrettanto – , la prigione è stata una situazione interamente volontaria, una delle conseguenze prevedibili di un dissenso politico serio. Ciò non significa che abbia scelto o preferito la prigione, ma solo che ho considerato la disobbedienza civile come un dovere cristiano e accettato la prigione come una conseguenza».

(…)
I Berrigan non sono dei marginali, dei Neri, dei Chicanos, dei miserabili, insomma gente che non muove affatto la coscienza americana, troppo competitiva per essere sorpresa o toccata dalla protesta dei «vinti» del proprio mondo. Essi sono invece dei pari, dei reputable men, religiosi appartenenti a ordini che hanno un posto e un potere nella società. Con ciò essi mettono in causa, pubblicamente, «l’identificazione automatica del cattolicesimo con lo statu quo, la sua alleanza con le cause patriottiche dominanti, la sua ambizione di farsi accettare». (…) E questo in nome di una irriducibilità della coscienza – animata, dicono dalla «passione morale». Il titolo di un film su Daniel Berrigan lo dice con una espressione esplosiva: «Il santo fuorilegge».
Come poeta e come cristiano, Berrigan segue piuttosto la traiettoria di Rimbaud, «lavorare ad una creazione», «dare uno spazio in cui respirare»; non lo possono fare né le parole né le proteste verbali. Smettendo di vedere e di sapere senza cambiare nulla, troveremo infine la strada dell’agire? Questa è la sua domanda.
Daniel Berrigan sa anche che c’è, in un certo senso, una secolarizzazione del martirio. Egli ha riflettuto molto su Bonhoeffer.

«I gesuiti del XVI e XVII secolo hanno condotto una vita segreta in Inghilterra per difendere l’unità della Chiesa… Non posso pensarmi come un prete gesuita che muore per l’Eucarestia, se non in un modo totalmente nuovo, nel senso che l’Eucarestia implicherà che l’uomo è un valore, che non si può né uccidere, né degradare, né violare la vita umana, e che non si può essere razzisti.»

[le parole e frasi virgolettate « » sono di Berrigan]