Recensione di Michel de Certeau a: Ernesto de Martino, La terra del rimorso
Partito verso quell’ «al di là» con cui oggi ogni cultura definisce l’alterità, lo storico-etnografo trova subito qualcosa che va ben oltre lo ‘strano’. Vicini e lontani, situati nella propria terra ma ad ogni estate afferrati dal tarantismo («possessione» millenaria attribuita al morso della tarantola e «guarita» per mezzo di danze e pellegrinaggi), i villaggi intorno a Taranto, nell’Italia del sud, non rivelano a Ernesto de Martino solo quella che già i gesuiti del XVII secolo chiamavano l’«India italiana». Allo storico che li esamina, questi «resti» insegnano le tensioni interne alla loro civiltà); più profondamente, significano il «morso» del passato indecifrabile e dei conflitti irrisolti di cui parla ogni linguaggio umano.
Punti dal fantastico ragno che li sorprende all’ora di mezzogiorno durante la stagione dell’amore e della mietitura, liberati dalla danza che li identifica, poi li strappa alla follia organica dell’amore proibito o della morte, ricondotti a un ordine sociale tramite il rito al quale si è sovrapposto il culto di san Paolo che cammina sul serpente, i tarantolati raccontano a loro insaputa i drammi personali che, spariti dal ricordo, risorgono nel cerimoniale dell’«avvelenamento», ma anche la guerra culturale tra il cristianesimo e i culti orgiastici dell’antichità, e ancora il «morso» segreto del «cattivo passato» che, in ogni uomo, tanto più è pericoloso quanto più è sparito dal ricordo. Sotto la figura dello strano, la piccola città di Galatina è solo uno dei paesaggi della terra comune, terra del rimorso, terra dove il passato perduto non cessa di «rimordere». L’autore dimostra brillantemente una tesi. Il tarantismo non è spiegabile con una malattia fisica (il latrodectismo) o mentale. Occorre un’interpretazione storico-culturale per rendere conto dei fatti. Un’istituzione «funziona» qui all’interno di un ordine culturalmente condizionato dove si risolvono delle crisi neuropatiche che a loro volta si configurano sul modello di un avvelenamento culturale. La musica, la danza, i colori che costituiscono l’esorcismo, formano «uno strumento di reintegrazione, un ordine tradizionalizzato di efficacie simboliche in grado di disciplinare la crisi, assegnandole un luogo, un tempo, un modo determinati, e sforzandosi di ricondurla a un nuovo equilibrio». La liquidazione del passato dimenticato e del «rimorso» occulto si opera sotto forma di un impegno rituale e annuale che spezza l’isolamento nevrotico attraverso «un sistema di fedeltà culturali e un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso (p. 159).
Le appendici neuropsichiatriche e psicologiche, dovute a G. Jervis e a L. Jervis-Comba, sono deludenti (p. 311-354). Nel farle proprie, E. de Martino presuppone l’immutabilità delle nozioni e dei metodi psichiatrici. Ma, come già sottolineava M. Foucault nella sua Nascita della clinica, le norme e le categorie della psicologia non sfuggono alla relatività e agli spostamenti dei sistemi culturali. Non bastava dunque adattare i test a degli individui illetterati per renderli proporzionati al problema. Del resto, se l’autore qui accetta l’in sé di una scienza psichiatrica (per contestare l’uso che ne viene fatto), mostra tuttavia lui stesso l’origine e le determinazioni storiche dell’interpretazione «scientifica» e «medica» del tarantismo: nata nel secolo dei lumi essa mirava a ricusare l’interpretazione attraverso la magia (quest’ultima essendo a sua volta un tentativo di integrare i culti orgiastici nel sistema culturale medievale). Questa storia, minuziosamente analizzata, fa apparire come, all’interno di ciascuno di tali sistemi, l’oggetto e la sua interpretazione si definiscano vicendevolmente (p. 253-54): il fatto, l’esperienza e il senso rivelano ogni volta una coerenza che li situa reciprocamente, benché essa continui ad evolversi, sottesa dal gioco delle «due grandi polemiche occidentali, quella del cristianesimo contro i culti orgiastici e quella della nuova scienza contro la magia naturale e la magia cerimoniale (p. 307).
Lettura stimolante sotto vari aspetti, l’opera di de Martino apre dunque una riflessione filosofica di stile nuovo, ma per il rigore stesso con cui l’autore conduce la sua inchiesta di viaggiatore e adempie al suo compito di storico della religione del Sud italiano: «Il compito della comprensione storiografica è quello di scoprire delle coerenze culturalmente condizionate nei comportamenti apparentemente irrazionali degli individui e dei gruppi» (p. 302). A questo livello di precisione e di lucidità, una «scienza umana» diventa un interrogazione sull’uomo, una messa in questione dell’uomo.