Intervista a Stella Morra dopo l’uscita della traduzione italiana del colloquio tra Michel de Certeau e Jean-Marie Domenach

Come già avevamo annunciato, è uscita in libreria la traduzione italiana del colloquio tra Michel de Certeau e Jean-Marie Domenach, Il Cristianesimo in frantumi (Le Christianisme éclaté), una riflessione a due voci sulla situazione attuale dei cristiani nella relazione tra vita di fede e mondo di oggi. Il testo appare in Italia dopo 36 anni dalla sua prima pubblicazione, anche se la sua origine è un dibattito vivo tenutosi durante una trasmissione radiofonica sull’ORTF, all’epoca la radio pubblica francese. Il testo, uscito con una introduzione di Stella Morra e una postfazione a guisa di rilettura di Ghislain Lafont, ha ricevuto nei mesi precedenti varie attenzioni, citato e recensito da alcuni quotidiani nazionali. Un lettura che è per certi versi di approccio più immediato rispetto ad altri titoli di Certeau, già presentati al pubblico italiano, come Fabula mistica, La scrittura della storia o L’invenzione del quotidiano, anche se il tono divulgativo può indurre i lettori a comprensioni affrettate.
Abbiamo chiesto lumi alla traduttrice e curatrice dell’edizione italiana, la professoressa Stella Morra, una delle maggiori studiose italiane di Certeau e da anni impegnata nella lettura di questo testo in particolare, per capire meglio questo confronto sulla crisi del cristianesimo nel mondo contemporaneo.

1 – Nella sua introduzione lei spiega ai lettori chi sono gli autori, di cosa parlano e quali riflessioni trarne. Le chiederei un quarto elemento: a chi parlano, a chi rivolgono la parola Certeau e Domenach? In altri termini, quale punto o quali punti della coscienza dell’uomo di oggi viene pungolato da questo testo? Cosa l’ha spinta a studiarlo e riproporlo all’attenzione del pubblico italiano oggi?

Un testo come questo è davvero un testo ingannevole: il tono sciolto e parlato, apparentemente semplice, l’atmosfera di dialogo (dotta, ma non erudita) quasi da salotto, possono davvero trarre in inganno e far pensare ad un genere assai diffuso oggi, quello della chiacchiera. Siamo ormai così assuefatti alla presentazione di opinioni personali spacciate per assoluti, alla polemica finalizzata a se stessa e al gusto dello scontro, che rischiamo di non cogliere un carattere per me decisivo di questo testo: il suo riproporci una ‘conversazione’, nel senso profondo e antico di questo termine, erede della grande tradizione francese dei salotti colti (e spirituali!) e insieme della migliore attitudine della scolastica medioevale che aveva insegnato a fare del sapere un’esperienza che richiede più soggetti dialoganti (le quaestiones disputandae!). Ma la conversazione produce sapere se nasce da un sapere, se fa attraversare le biografie e le sensibilità personali da un principio critico e mette in campo percorsi di ricerca e non ‘opinioni’.
La ‘conversazione’ dovrebbe davvero essere un luogo evidente (e fecondo) specie per l’esperienza cristiana: ci basti pensare evocativamente alla figura dei discepoli di Emmaus (tanto cara a Michel de Certeau), una conversazione apre lo spazio all’intervento del Viandante silenzioso che entra nello spazio ex-tatico della parola/delusione scambiata e spezza, e educa, e sposta… La ‘conversazione’ della Parola/parole scambiate è forse il vero tessuto storico di un’esperienza di chiesa, laddove la verità non si conserva, né si discute, ma si fa, chiamati fuori di sé dall’altro, l’interlocutore, egli stesso non proprietario (la conversazione non è mai semplice accondiscendenza!).
Tutto questo è mostrato molto bene dalla mirabile risposta di Certeau che dice “Ma la sua domanda non mette solo in causa lo statuto di questo luogo. Essa mi interroga sul mio proprio luogo. […] Lei mi domanda, allora, come mi situo in rapporto ai problemi quotidiani. E’ un buon terreno per un chiarimento, dato che il fondamentale si gioca nel banale. […] Se ciascuno fa ciò che può, trovando nella sua fede uno spirito di cui non esiste più una traduzione garantita, la sua domanda mi riconduce a ciò che io faccio e a ciò che io credo. Non penso che il discorso autobiografico sia meno stringente o più vero che altri. Può addirittura diventare impudico, quasi osceno. Non di meno corrisponde tuttavia alle traiettorie multiple che oggi l’esperienza di fede disegna. Ci riconduce ciascuno alla modestia del nostro percorso e del nostro itinerario. Ricollocato al mio posto, mi sento dunque complice e la ringrazio del suo richiamo. Lei è l’altro che mi rinvia, più vera, la questione stessa che io ho posto. Per rispondere non più, dunque, alla sua domanda, ma a lei, devo domandare a me stesso perché credo. Per parlare propriamente, non è affatto una opzione.”
Prima ancora che per i suoi contenuti, ho amato questo libro e ho fortemente voluto proporlo anche ai lettori italiani, come un esercizio di stile, di intelligenza e di pratica, un paradigma di conversazione feconda che si rivolge in primo luogo alla nostra necessità di uscire dall’alternativa (falsa) tra solitudine/silenzio o presunzione sapiente e potente.

2 – Il protagonista del dibattito è un cristianesimo “in frantumi”, letteralmente dal francese, “esploso”. Ma per Certeau e Domenach non è in discussione un’analisi sociologica del cristianesimo bensì il futuro di questi e della coscienza dei credenti. Quale prospettiva ha il futuro della coscienza credente in queste pagine?
Una prospettiva, mi pare di poter dire, umile e vitale. Molti hanno letto questo testo come una (pessimistica) dichiarazione di fine e sfacelo, specie da parte dell’interlocutore ufficialmente credente, il gesuita de Certeau. Ma quella che qui si presenta è un’analisi radicale e senza sconti della grande transizione in cui siamo immersi: si prende sul serio la mutazione di una forma di cristianesimo assodata da secoli che sembra mostrare il suo svuotamento dall’interno. E si accetta modestamente di non riuscire ad intuire altro che accenni di una forma verso cui si sta andando, senza poterne indicare ancora un profilo netto e completo. Ancora una volta si cerca una verità che si fa (e si va facendo) piuttosto che una verità che si ha o si sa… è in qualche modo la stessa logica.
Mi pare che a questo proposito le questioni da sottolineare siano almeno due: la prima è la messa in guardia contro l’uso folklorico del linguaggio e dell’esperienza cristiana; la seconda è l’apparire di una forma di cristianesimo, almeno per il momento, meno identitaria e più pratica.
La prima: tentati di mantenere ciò che sopravvive e di gestire l’esistente, siamo tentati di accettare una pervasività generica e folkloristica, appunto, di valori e parole; per dirlo un po’ polemicamente, la presenza di un teologo o di un vescovo ad ogni dibattito televisivo è sufficiente a offrire una esperienza credente condivisa? O non è piuttosto un rischio per la verità dell’esperienza cristiana più forte che qualsiasi attacco frontale?
La seconda: un cristianesimo vissuto nella dispersione delle pratiche della vita quotidiana, che spinge verso il Regno di Dio attraverso fraternità semplici, è davvero la negazione e la perdita di un’esperienza credente condivisa?
Queste mi sembrano le provocazioni principali, inquietanti certo, ma non per questo da non prendere in considerazione.

3 – Tornando alla sua introduzione lei spiega la scelta di inserire questo testo di una collana curata dal Coordinamento delle Teologhe Italiane. Sono tempi in cui le donne in Italia hanno preso la parola, per usare un’espressione cara a Certeau, per riaffermare la loro dignità e il loro carisma nella società del nostro paese. Perché questo testo è in sintonia con la ricerca religiosa delle donne?
Come cerco di spiegare anche nell’introduzione, il metodo sostanziale della parzialità, del prendere le mosse del pensare e del vivere dall’attrazione dell’altro che ci espropria (“Il discorso che, attraverso la mia bocca ammaliata da te, tu hai pronunciato”, Platone, Fedro 242a) è un patrimonio proprio (anche se non di proprietà, come questo testo dimostra) della recente storia e riflessione delle donne… siamo liete delle complicità che come donne, e donne credenti, possiamo riconoscere! Questo metodo è la prima grande sintonia.
L’altra questione per me significativa è quella di un punto di partenza della riflessione dal margine, non dal centro; si tratta cioè di una riflessione senza arroganza. E’ decisiva questa attitudine, e vorrei spiegarlo con una citazione che dice assai meglio di quanto sarei capace di fare io quanto questo è importante:

“Per metafora hanno vissuto per anni le donne. Ospiti della sua utopia. Conservando nella vita pratica il silenzio. Ora, se sottraggo il mio essere-donna al destino del silenzio, non è per vendetta, ma per giustizia. Non voglio pronunciare apodittiche verità. Riconosco semmai al discorso soprattutto un potere di rottura e di ricominciamento. Parlo perché l’altro possa anch’egli parlare. Non mi fido di parole che incantano, voglio parole prosaiche, che non dimentichino ciò che per tutti (uomini e donne) vale: v’è separazione tra essere e lingua.
So che non siamo ancora liberi, né uomini, né donne. Non ci parliamo da pari a pari. Ma io immagino (sogno) questo: di stare di fronte ad un uomo che perda di fronte a me la sua tracotanza e si renda conto con me di non sapere nulla, e questa conoscenza gli strozzerà in gola la voce…. A me no; io ho sempre parlato con il dubbio in gola.
Gli uomini che come madri e amanti cresceremo, li prepareremo per questa prova, perché vogliamo con loro vivere in forme aperte e alleate. Ci incontreremo senza appartenerci, ci avvicineremo senza strangolarci in legami troppo stretti; accetteremo l’uno dall’altro l’ombra di sconosciuto che ci avvolge. Staremo nell’estraneità reciproca ammirando che l’altro possa fare cose diverse da noi, dire cose che non capiamo e tuttavia ci appartengono. Saremo noi gli Ultimi Mohicani dell’amore? Noi, le ultime donne?”

Stella Morra – Gennaio 2012

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *