La pluralità come cifra del pensabile
Davanti al pensiero dell’uno (l’enologia), occorre produrre dell’eterologia
La pluralità, nel pensiero di Michel de Certeau, è un elemento cardine del “pensare altrimenti”. È in questa prospettiva che comprendo l’invito a “praticare la pluralità” come ci ha proposto il convegno di Roma. Più che una presa di coscienza, ci vedo l’indice di un lavoro: prendere in considerazione i cambiamenti nel pensiero e nell’azione che la nozione di pluralità mette in atto. Quanto presento qui non ha l’apparato critico che richiederebbe un’esposizione scientifica; è piuttosto una narrazione epistemologica che faccio emergere da una lunga frequentazione dell’opera di de Certeau [1]. Riprendo, in modo più documentato e articolato, gli elementi sparsi che ho condiviso in occasione della tavola rotonda: identificare i principali parametri che organizzano, in de Certeau, la nozione di pluralità, a partire dalla semplice idea di diversità dei campi e degli approcci fino alla pluralizzazione interna dello “statuto del comprendere”.
In effetti, la pluralità è essa stessa plurale: è una nozione multiforme a più entrate:
- innanzitutto, essa prende atto della diversità delle questioni, ma pure della diversità dei contesti e dei campi messi in gioco da una medesima questione;
- in conseguenza dell’attenzione accordata all’alterità e alla differenza, essa riconosce la validità a) di approcci diversificati di un medesimo oggetto, dovuti al dislocamento nella “topografia contrattuale dei locutori” [2] che permette un’altra interpretazione degli elementi in gioco, e b) del processo metodologicamente trasversale che può richiedere un’attenzione di prossimità a quest’oggetto;
- essa constata e prende in esame la diversità antagonista e la multilocazione dei luoghi e delle referenze culturali produttrici di senso nella società attuale;
- ma, in una maniera ancora più radicale, la pluralità modifica dall’interno lo “statuto del comprendere” avendo per effetto una nuova organizzazione dell’intelligibilità (una struttura plurale del pensabile), e, con ciò, essa diventa la punta di lancia della coabitazione culturale e dei nuovi rapporti sociali. Quest’ultimo parametro fa della pratica della pluralità la chiave di volta del “voler vivere insieme”, ciò che, ancor più di un risultato di analisi, la qualifica come richiesta etica. Per conseguenza, la pluralità, in qualità di compositrice di pratiche interpretative, della comprensione dei problemi culturali e sociali, della fibra dei legami sociali e del rapporto all’altro, è la formalità sotto la quale propongo di intraprenderne l’indagine e di chiarirne i pro e i contro.
Fin dall’inizio, tuttavia, occorre prendere atto della resistenza che suscita una simile proposizione e identificarne i principali punti d’attrito. In primo luogo, la pluralità, in quanto è inerente alla pratica interpretativa, si scontra con la dominazione classica dell’idea dell’uno come ideale, come origine e finalità del comprendere e come condizione della verità. Si paventa il rischio del relativismo che essa sembra far correre e fa da immagine di fallimento del pensiero in quanto partizione e disseminazione sintomatica della cultura attuale; non sembra valorizzabile che come effimero momento nella mira dell’uno. In secondo luogo, la pluralità scuote l’abitudine di concepire la comprensione e l’interpretazione come un atto della ragione sottomesso a delle regole di logica, sostituendovi la nozione di “pratica interpretativa” come processo dipendente da condizioni [3] di luogo, persona, istituzione, contesto e dalla natura dei problemi (nel complesso di una topografia dei locutori). Cosa che ha per effetto d’inferire un limite di significalibilità degli enunciati che ne risultano. In terzo luogo, la questione de “l’oggetto da comprendere”: la pluralità rimette in questione il modo supposto spontaneo di stabilire l’oggetto da pensare (situazioni, conflitti, questioni religiose, culturali e politiche, o anche questioni d’interpretazione di testo, di nozioni, ecc.) non comprendendolo come “reale” che si dà a pensare, ma come un “costrutto” sempre già segnato dalle condizioni della sua produzione (la configurazione che riceve in quanto oggetto da comprendere contestualizzato, a volte pure circostanziato).
Alla luce di questi riferimenti e dei segni che essi comportano, mi impegnerò, nel seguito del testo, a precisare come la nozione di pluralità influenzi la struttura stessa del pensabile, identificando le diverse alterazioni che vi effettua e mostrando, per ogni livello d’operazione, ciò che implica “praticare la pluralità”.
1- Pluralità e scelta di una questione
Che siano del passato o attuali, il culturale, il sociale, il religioso sono dei campi plurali se vi si designa la molteplicità e la diversità delle forme che li specificano, delle collettività che vi si esprimono e degli approcci che li pensano. È un primo livello di significato dell’idea di pluralità ma che comporta già delle determinazioni per la pratica. La prima e la più immediata è un atto di riconoscimento: riconoscere e prendere atto del carattere particolare e contestualizzato di ogni oggetto da pensare (fosse anche un idea di universalità). Ma nella congiuntura attuale, non è solo il processo di comprensione che si pluralizza, è innanzitutto lo statuto stesso della realtà [4] (religiosa, culturale, sociale e politica) a causa della frammentazione delle unità di senso tradizionali, la pluralità dei punti di riferimento culturale, la multilocazione delle produzioni di senso, il confronto delle visioni del mondo e dei sistemi di valori e i cambiamenti che tutto ciò impone al pensiero e all’azione. Questo fatto condiziona fortemente la scelta di una questione; esso la influenza innanzitutto rivelando l’illusione secondo la quale tale questione è direttamente desunta dalla realtà (che si trattasse d’un problema religioso, culturale, politico o altro) e trasposta come questione da comprendere. La questione non è estratta dalla realtà, vi è prodotta come questione dalla differenza che essa riceve da una lettura della situazione, quando altre letture produrrebbero altre domande. Tale aspetto è particolarmente pertinente nella cultura attuale, in cui la scelta di una questione da trattare, oltre ad essere condizionata dalla pluralità delle letture possibili di una situazione, lo è ancora di più dalla diversità dei riferimenti culturali sostenibili, dei luoghi di produzione di senso dove si incrociano la scuola, l’ambiente, le organizzazioni industriali, professionali, sindacali, l’arte e le chiese.
Questo aspetto della pluralità attuale costituisce un reale condizionamento del modo di pensare il presente, ma permette anche di comprendere meglio il caso in cui si mantengono delle istituzioni e dei comportamenti tradizionali nella modernità progredita. Anche nel caso in cui delle istituzioni del passato si perpetuano, mantenendo delle tradizioni e dei comportamenti, il loro inserimento in una nuova pluralità contestuale ne cambia il significato. E, malgrado ciò che ci sembra a prima vista, esso non è solo dovuto all’influenza pressante del nuovo contesto che verrebbe ad aggiungere altre idee, ma più ancora al modo secondo il quale queste istituzioni assorbono il discorso ambiente che ricevono, lo riorganizzano a partire dal loro proprio discorso e si rimettono in marcia, ma in un’altra dinamica [5]. Le forme del passato che perdurano e le istituzioni tradizionali che si mantengono in un nuovo contesto di pluralità, pur essendo sempre coerenti con la loro identità, non rappresentano più lo stesso fenomeno né hanno più lo stesso significato.
2- Pluralità e pratica interpretativa
Una volta questa pluralità di prima istanza riconosciuta, il processo cognitivo ne opera subito un raddoppiamento attraverso la messa in atto di una pratica interpretativa intrinsecamente plurale. Questa seconda istanza di pluralità è capitale, altrettanto elemento cardine per un “pensare altrimenti” e determinante per il carattere etico della richiesta. Ne darò spiegazione più avanti, ma già questa seconda istanza e le determinazioni che inscrive nella produzione dell’oggetto hanno bisogno di essere oltremodo esplicitati.
Supponiamo un percorso in compendio del processo di comprensione: una volta fissata la scelta di un campo e di una questione da capire, segue la messa in atto di un lavoro di interpretazione. È qui che si gioca l’essenziale: vi si costituisce un nodo di convergenza in cui si incrociano i principali parametri delle operazioni del comprendere. Contrariamente a un’immagine classica (di cui Wittgenstein dice che si è rimasto catturato), pensare non è il fatto di una coscienza liscia sulla quale si imprimerebbe una realtà e che la ragione analizzerebbe applicando delle regole logiche, portando “alla luce del giorno” ciò che sarebbe latente, dissimulato o nascosto nei testi o nei dati. È piuttosto il prodotto di una combinatoria complessa [6] tra un “luogo sociale” (istituzionale, professionale o altri, in cui si incontrano un singolo, l’interprete, con tutta la sua panoplia idiosincrasistica, e un contesto con le sue strutture, le sue regole, le sue coerenze e i suoi interessi), delle “pratiche scientifiche” (con i loro criteri di rigore e di controllo) , o delle “pratiche culturali” (con le loro referenze e le loro appartenenze), “un discorso” e “una scrittura” che introducono una determinazione nel prodotto, aprendo uno “spazio testuale” d’organizzazione del pensiero e provocando una redistribuzione degli elementi prodotti dalla ricerca e dall’analisi che precedono.
A) Pluralità e riconfigurazione della questione in oggetto d’analisi.
Questa seconda istanza è il luogo per eccellenza della pluralità, ed essa ha per primo effetto di riconfigurare, secondo una «topografia contrattuale dei locutori», la questione da trattare e di costituirla in oggetto specifico d’analisi avuto riguardo ai nodi messi in luce. Ne emerge un’indicazione importante per la “pratica della pluralità”: il processo di comprensione costituisce diversi “punti di osservazione” che fan sì che un problema da chiarire e la questione da capire che ne esce, una volta configurati in oggetto specifico d’analisi, non rappresentano per forza lo stesso fenomeno né hanno lo stesso significato di quello di prima istanza: dipende dalla chiave d’analisi con la quale si formalizza la riconfigurazione [7].
B) Pluralità e messa in opera delle procedure d’interpretazione
Qui, diverse connessioni e interfacce si incrociano e si intersecano ad ogni livello e tra i diversi livelli di pluralità. Dei legami si stringono da una parte, tra i luoghi sociali, le pratiche interpretative e le pratiche discorsive, e, dall’altra parte, tra questo insieme analitico e la pluralità culturale del terreno in cui la questione si pone. È il momento in cui si negoziano le appartenenze, le lealtà, le convinzioni e le intenzionalità con le esigenze dell’analisi e la finalità del discorso. Ciascuna e ciascuno ha un luogo da cui lui o lei pensa e parla e la sola idea di soggettività non è sufficiente a darne conto; occorre in aggiunta includere i parametri della produzione e dell’operatività con ciò che comportano di aleatorio e di circostanziale [8]. Si percepisce facilmente che una tale situazione può produrre delle connessioni, delle interfacce e dei confronti che modulano il processo d’insieme ma in un modo che non è né recuperabile né chiarificabile dall’analisi. Comprendere opera dunque su un rumore di fondo, una sorta di movimento browniano, e le operazioni che vi si effettuano sono singolari, contestualizzate e fortemente segnate da una maniera particolare di rapportarsi all’oggetto e al pensabile. Si vede ugualmente quanto tutto ciò influenzi gli enunciati prodotti dall’analisi, costituisce i loro limiti di significabilità e sottolinea il modo secondo il quale la comprensione, a sua volta, mira il reale e lo manca.
Certo, si può pensare di annullare i differenti divari che sciamano lungo tutto il percorso interpretativo, pretendendo di otturarli con delle procedure metodologiche che mirerebbero, con un ritorno della prospettiva enologica, a ricondurre la pluralità sotto la cupola di un principio esplicativo a strapiombo, supposto oggettivo e uniforme. Ma, presso de Certeau, ciò che impone una pratica interpretativa non sono principalmente le regole di una disciplina con il suo quadro teorico e la sua metodologia, bensì una “attenzione di prossimità” accordata a un oggetto da un soggetto concretamente situato e da una posizione identificata. Questa nozione “di attenzione di prossimità” è più pregnante di quanto non sembri a un primo sguardo. È coestensiva all’idea di pluralità poiché è questa che identifica le richieste dell’oggetto, confronta il processo d’analisi mettendo così in luce ciò che non giunge a chiarire e, da lì, legittima un processo trasversale che mette a profitto i diversi saperi richiesti dalla comprensione dell’oggetto. Il rigore e le regole metodologiche del “fare una buona analisi” non vi sono sottostimate, anzi sono rigorosamente richieste, ma non sono la sola figura dell’operazione: esse entrano in gioco con altri figure, cosa che permette di relativizzarne l’egemonia.
Il processo d’interpretazione implica dunque che una questione da comprendere è già pluralizzata dal campo in cui essa si pone e, che in aggiunta, questa pluralità si raddoppia dall’operazione che la riconfigura in oggetto specifico di analisi a partire da parametri di luogo, di metodi e di discorsi. Ma, a ritroso, questo provoca un effetto non trascurabile per la pratica della pluralità: sia un’alterazione del rapporto al testo, al documento, ai dati. Ovvero che se l’operazione di produzione di una questione in oggetto specifico d’analisi suppone un “raddoppiamento” di pluralità dagli incroci che vi si operano tra le intenzionalità, i metodi e le finalità, la presa in conto di questo fatto obbliga un lettore a un lavoro di “sdoppiamento” nel suo rapporto al testo che studia, al documento che consulta e ai dati di cui dispone. Altrimenti detto, il suo dispositivo di comprensione di un testo (ossia: la questione che si pone e il processo che si dà) incrocia un altro dispositivo, quello del testo, (ossia: a quale questione rispondeva e in quale approccio l’ha trattato), e questo lo porta a distinguere i due dispositivi e, nell’intersezione, a vedere l’altro dispositivo come evento che altera il suo processo e permette d’instaurare una comprensione differente della sua questione.
3- Pratica interpretativa e pratica significante: la pluralità come paradigma
Ogni pratica interpretativa è una pratica culturale e dunque una pratica significante. Una posizione ermeneutica, anche sostenuta su una teoria scientifica dell’interpretazione con una conseguente metodologia, suppone innanzitutto un rapporto al culturale, al sociale, al religioso, al politico e al luogo da cui le si pensa, (insomma a ciò che il sapere mira con il “rapporto al reale”). La coscienza di questo rapporto può essere sospesa, messa tra parentesi, per far emergere uno spazio analitico più rigoroso (più asettico), ma ciò che è sottratto dal modo di produzione, riappare nel prodotto.
Comprendere e interpretare vuol dire anche testimoniare e partecipare. La pluralità, più che un problema epistemologico, si impone dunque come un problema culturale, sociale e religioso, e occupa un posto paradigmatico in una cultura in cui “il rischio del senso è allo scoperto, senza la protezione di una ideologia inglobante”. Ne consegue che la pluralità deve essa stessa essere pensata nel suo doppio effetto: il suo apporto all’interpretazione (pratica interpretativa) e il suo apporto alla situazione in questione (pratica significante).
a) Abbozzo per primo a grandi linee l’apporto all’interpretazione, cioè, ciò che implica epistemologicamente una struttura plurale del pensabile
Per definizione, l’uno e il plurale si oppongono, ma la prospettiva ontologica aperta da questa affermazione non è quella che permette di pensare la pluralità presso de Certeau. Prima di tutto la pluralità non è per lui il contrario dell’uno, ne è piuttosto la differenza: essa non viene a pluralizzare ciò che produce la prospettiva dell’uno riconoscendo “la legittima diversità di opinioni”, riprende in modo nuovo l’idea stessa del pensabile, ponendolo altrimenti. Non è sull’orizzonte dell’essere che si disegna l’architettura del pensabile, è in rapporto a un “fare” (fare un’analisi, fare della teologia, della sociologia, della filosofia ecc). La fabbricazione e le sue regole sono il modo che impone la pluralità delle operazioni e colui che dona loro senso, ed è la nozione di “attenzione di prossimità all’oggetto” (vicina a una problematica di cognizione e di psicologia sperimentale) [9] che stabilisce e organizza i processi richiesti. Al posto di essere compreso fenomenologicamente come la marcia conquistatrice di un principio interpretativo che prende il reale ri/presentato nell’oggetto e lo macina nelle sue verità interiori, pensare diventa piuttosto una coerenza tra una pluralità di parametri: le procedure dell’analisi, i postulati che implicano e gli oggetti che determinano. Il concetto diventa “evento”, ovvero, che in luogo di essere innanzitutto pensato come nuovo principio produttore di verità, è pensato come introducente un cambiamento dello spazio nel quale il discorso si produce e vi induce un’altra interpretazione.
La trascrizione dettagliata di un percorso interpretativo rischia di riportare una pratica in costante dislocamento a un tracciato, una linea, che la totalizza e la riduce a una traccia grafica, quando il movimento browniano insito ci mette in circolazione ben altre figure rispetto alle procedure dell’arsenale di comprensione. Nello sforzo di appropriazione della nozione di pluralità presso Michel de Certeau si è favoriti a mantenere ogni enunciato in tensione tra due figure maggiori del suo pensiero: da una parte, quella della fabbrica, della fabbricazione, che suggerisce di isolare e di smontare le regole delle procedure interpretative in maniera analoga alle regole di fabbricazione in un’azienda (studiabili, controllabili e verificabili), e d’altra parte, all’opposto, la figura che si evince dal Giardino delle delizie: l’indisponibilità radicale del reale, se ciò non è attraverso una finzione nella quale è preso di mira e mancato. Ci sarebbe ancora da mostrare come, tra queste due figure maggiori, altre figure intervengono, per infiltrazione, sotto un modo aletico (secondo un valore di verità), un modo epistemico (secondo un valore di conoscenza), un modo deontico (secondo un valore di obbligazione). Intervenute nell’indefinita diversità delle operazioni enunciatrici, delle inflessioni corrispondono – a delle figure del pensiero: il mare e il suo bordo e le tracce nella sabbia – a delle figure del soggetto – il mistico e l’economico. Occorre mantenere queste figure attive, poiché il tracciato, così riduttivo, strappa l’operazione ai tempi della sua produzione per stenderla su una superficie leggibile in cui si sostituisce alla pratica e fa dimenticare il modo di essere al mondo che l’ha orientato [10].
b) Prendere i rischi del presente
Ne vengo, terminando, all’apporto della pluralità come pratica significante per la questione messa in causa. Nelle vicende umane l’analista è anche testimone e parte partecipante. Lo è per i suoi enunciati, ma questi, in più di un chiarimento per la comprensione, sono anche delle indicazioni per la valorizzazione e l’azione. E questo, anche quando sono formulati esplicitamente e formalmente in termini di analisi. La maniera di essere al mondo che il loro modo di produzione suppone, modula il prodotto, talvolta impercettibilmente ma spesso in un modo localizzabile [11]. Ora, nel caso che ci interessa, la pratica della pluralità oggi, malgrado la discontinuità che opera in rapporto alla dominazione classica dell’uno, è tuttavia in continuità con il passato. Nella misura stessa in cui si può rintracciare l’omogeneità esistente tra i diversi periodi di una tradizione e i loro tempi, si indica in tal punto la necessità, ovvero l’urgenza di conformarsi al nostro [12]. Ora, il nostro è, all’evidenza, culturalmente, socialmente e religiosamente plurale e, inoltre, espone riflessivamente la legittimità delle ragioni d’esserlo. Prendere i rischi del presente è riconoscerne la fisionomia plurale, la validità delle differenze e della loro coabitazione, la diversità delle referenze culturali e religiose, e la pluralità dei luoghi produttori di senso, ed è anche riconoscere la pluralizzazione interna del pensiero che l’interpreta.
Ora, è precisamente qui che il ragionamento inciampa o più precisamente che è confrontato a un posizionamento epistemico opposto, in cui il presente culturale è denunciato come divisione, frammentazione, fallimento del pensiero in un relativismo debilitante, quando, dal suo lato, il soggetto economico è assemblato, mondializzato e formattato da un dispositivo uniformizzante che si auspica applicabile ugualmente al culturale, (pensiamo ai dibattiti che provoca la clausola dell’eccezione culturale nei trattati commerciali). Si è dunque in presenza di più forze d’attrazione: il polo economico uniformizzante e il culturale pluralizzato in poli eterogenei e allo stesso tempo antagonisti. Ed è un fenomeno nuovo in cui pezzi interi dell’esperienza umana si trovano senza i punti di riferimento che danno un significato alla condotta di vita. È qui che il carattere etico della pratica della pluralità prende il suo valore, e questo in due maniere. Da una parte, prendendo atto della pluralità, essa la legittima riconoscendo che in realtà “il significato dell’esistenza umana è identico alle forme multiple che assume il rischio di essere uomo”; esistere umanamente è inscrivere la propria impronta in quel che altri “danno da vivere e da pensare” [13]. Il pensiero dell’uno assegna un posto a ciascuna e a ciascuno mentre la pluralità fa posto all’altro. Praticare la pluralità è dunque, a tal titolo, una pratica significante in ciò che mi rinvia alla mia differenza nella mia comprensione delle cose, alla coscienza dei limiti della mia posizione: non ha di che annullare l’altro ma, al contrario, apre lo spazio che lo attende. D’altra parte, tale questione raggiunge, presso Certeau, una postura epistemica fondamentale: davanti a una difficoltà epistemologica occorre privilegiare la domanda etica. Ora, questo ci mette in pieno nel dibattito attuale. Le rivendicazioni identitarie e le rappresentazioni che vi si affrontano in termini di memoria, di visioni del mondo e di sistemi di valori, paralizzano le culture in un vicolo cieco. L’egemonia del pensiero dell’uno, sempre all’opera sottobanco nel soggetto economico, milita per l’omogeneizzazione delle culture, mira ad appianare le differenze e a uniformizzare le rappresentazioni. È un vicolo cieco e una minaccia davanti alla quale Certeau dice che occorre lavorare acciocché la nostra epoca sia una genesi del plurale [14]. È la forma che prende la domanda etica del nostro tempo. La questione diventa: come lavorarci?
Ciò che propongo mi sembra nella stessa direzione e riprende le articolazioni di una struttura plurale del pensabile. La prima cosa di cui occorre prendere atto, è che la natura etica della domanda cambia la questione: essa la situa nell’ordine del volere. La questione non è più di sapere dove ci conduce la diversità delle nostre rappresentazioni ma dove vogliamo andare. La seconda cosa, è di prendere atto di come la pluralità altera, trasforma il rapporto con l’uno. Essa non lo annulla, anzi, diventa l’alterità (ciò che arriva d’altro) che permette d’instaurarne una comprensione differente. L’idea di unità conserva la sua forza d’attrazione ma, invece di portare sull’identità e l’uniformità delle rappresentazioni, essa porta sul “voler vivere insieme” e cambia la comprensione del percorso per giungervi. Inversamente, le differenze non sono più pensate come dei limiti di un rapporto con l’altro, ma diventano l’indice e il luogo di un lavoro in cui li si interroga su ciò che fanno dell’altro, quale posto gli fanno e come contribuiscono al vivere insieme. Son ben cosciente del cambiamento di paradigma che comporta una tale proposizione, ma mi sembra che l’invito a pratica la pluralità ci guida. Occorre consentire a non comprendere più la coscienza come presenza a sé, il pensare come presenza dell’essere, come presenza del reale, come presenza della verità [15], ma come una laboriosa e paziente oggettivazione del volere.
[trad. it. Edoardo Prandi]
Opere di riferimento
Michel de Certeau
(EH) L’écriture de l’histoire, Gallimard, NRF, Paris 1975 – La scrittura della storia, trad. it. Ieronimidis, Jaca Book, Milano 2006 (1975);
(IQ) L’invention du quotidien, 1 Arts de faire, coll. 10/18, 1980 – L’invenzione del quotidiano, trad. it. M. Baccianini , Edizioni Lavoro, Roma 2010 (2001);
(CP) La culture au pluriel, coll. 10/18, 1973;
(FC) La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987 – Debolezza del credere, trad. it. S. Morra, Roma Città Aperta, Roma 2006;
(AH) L’absent de l’histoire, coll. Repères, Mame, Paris 1973;
Leszlek Kolakowski, Chrétiens sans église, La Conscience religieuse et le lien confessionel au XVIIème siècle, Gallimard, NRF, Paris 1969.
Jeremy Ahearne, Michel de Certeau, Interpretation and its other, Standford University Press, Standford, CA, 1995.
Jonathan Crary, Suspensions of Perception, Attention, Spectacle and Modern Culture, MIT Press 2001.
Note
[1] – Indico le principali opere a cui si riferisce la mia narrazione epistemologica. EH, Production d’un lieu, pp. 27-122; Questions de méthode, pp.123-130; La formalité des pratiques, pp.152-214; IQ, pp. 31-176; FC, Le mythe des origines et Prendre les risques du présent, pp. 67-136; La rupture instauratrice, pp.187-226; CP, Les nouveaux marginalismes, pp.111-186; AH, Avant-propos, pp.7-9; La mort de l’histoire globale: Leszlek Kolakowski, pp.109-114; Le noir soleil du langage: Michel Foucault, pp.115-134.
[2] – AH, «C’est l’altérité (ce qui arrive d’autre) qui crée la césure grâce à laquelle peut s’instaurer une «compréhension» différente, c’est-à-dire la combinaison entre un déplacement dans la topographie contractuelle des locuteurs, et une autre interprétation des documents. J’y vois le symptôme d’une loi plus générale: le changement de l’espace où le discours se produit, a pour condition la coupure que l’autre introduit dans le même (c’est l’évènement), et pour effet une nouvelle organisation de l’intelligibilité (une structure du pensable)» p. 7.
[3] – EH, L’opération historiographique, pp. 63-120.
[4] – CP, pp. 160-165.
[5] – EH, «…pour déceler l’ordre nouveau qui s’inscrit dans les comportements traditionnels, l’analyse de leurs contenus ne suffit pas: les mêmes idées ou les mêmes institutions peuvent se perpétuer, au moment où elles changent de signification sociale».
«Un système de pensée se spécifie sans doute par l’invention de quelques notions de plus, mais bien davantage par une organisation différente des idées qu’il reçoit d’ailleurs, c’est-à-dire par une manière propre de les «faire marcher», dans la totalité d’un discours, de même des croyances et des institutions se mettent à «marcher» différemment et trahissent une dynamique d’un autre type…» p.166.
[6] – EH, pp. 63-120.
[7] – Cfr. Kolakowski «Mieux vaudrait estimer que le même (au sens ontologique) fait est tout simplement quelque chose d’autre en fonction du caractère du lien que lui confère l’observateur: lien psychologique, historique ou doctrinal…c’est précisément la structure qui confère un sens au fait; donc le fait a un sens par référence à chacune de ces structures considérées à part, – et chaque fois un sens différent – et non par référence à toutes ces structures considérées ensemble» p. 784, citato da Certeau in AH, p. 112.
[8] – EH, «Certes, il n’y a pas de considérations, si générales qu’elles puissent être, ni de lectures si loin qu’on les étende, capables d’effacer la particularités de la place d’où je parle et du domaine où je poursuis une investigation. Cette marque est indélibile. Dans les discours où je mets en scène des questions globales, elle aura la forme de l’idiotisme: mon patois figure mon rapport au lieu.» p. 63.
[9] – Cfr. Crary «…it is possible to position Schopenhauer not only as the overturning of a kantian model of synthesis, but as an early and decisive nineteenth –century assault on the very possibility of a philosophy of consciousness. Distraction and forgetfulness (suggesting sublimation and repression) became for Schopenhauer powerful components within the fluid economy of psychic experience. All the mental states (sleep, trance, fainting, daydream, dissociation) that classical thought had marginalized or excluded from its theories of knowledge now took center stage as parts of psychological accounts of normative subjectivity. Within a more generalized historical frame, we see the disintegration of the epistemological tradition running from Descartes to Kant for which consciousness or the cogito is the ground of all knowledge and certitude. For it is only when consciousness ceases to have an unquestioned fundational priority that attention emerges as a problem – when a subject ceases to be synonymous with a consciousness that is essentially self-present to itself, when there is no longer an inevitable congruance between subjectivity and a thinking “I”…”», p.57.
[10] IQ, ecco un buon esempio in cui Certeau mantiene un enunciato nella movenza di un’altra figura, quella dell’enunciazione voici un bon exemple où Certeau maintient un énoncé dans la mouvance d’une autre figure, celle de l’énonciation pedonale (l’attività multiforme della marcia, dell’erranza) «Les relevés de parcours perdent ce qui a été: l’acte même de passer. L’opération d’aller, d’errer, ou de «relicher les vitrines», autrement dit l’activité des passants, est transposée en points qui composent sur le plan une ligne totalisante et réversible. Ne s’en laisse donc appréhender qu’une relique, posée dans le non-temps d’une surface de projection. Visible, elle a pour effet de rendre invisible l’opération qui l’a rendue possible. Ces fixations constituent des procédures d’oubli. La trace est substituée à la pratique. Elle manifeste la propriété (vorace) qu’a le système géographique de pouvoir métamorphoser l’agir en lisibilité, mais elle y fait oublier une manière d’être au monde.» (p.180).
«De l’énonciation piétonnière qui se dégage ainsi de sa mise en carte, on pourrait analyser les modalités, c’est-à-dire les types de relation qu’elle entretient avec les parcours (ou «énoncés ») en leur affectant une valeur de vérité (modalités «aléthiques »du nécessaire, de l’impossible, du possible ou du contingent), une valeur de connaissance (modalités « épistémiques « du certain, de l’exclu, du plausible ou du contestable) ou enfin une valeur concernant un devoir-faire (modalités “déontiques” de l’obligatoire, de l’interdit, du permis ou du facultatif) (18). La marche affirme, suspecte, hasarde, transgresse, respecte, etc., les trajectoires qu’elle «parle». Toutes les modalités y jouent, changeantes de pas en pas, et réparties dans des proportions, en des successions et avec des intensités qui varient selon les moments, les parcours, les marcheurs. Indéfinie diversité de ces opérations énonciatrices. On ne saurait donc les réduire à leur trace graphique.», p.183.
[11] – Vedi nota 8.
[12] – FC, lezione di libertà dal passato: « ….dans la mesure où l’homogénéité entre chaque étape de cette tradition (jésuite) et son temps nous indique la réalité et l’urgence actuelles d’une semblable conformation au nôtre», p.76-77.
[13] – CP, pp. 163-64.
[14] – CP, p. 162.
[15] – Vedi nota 9, testo di J. Crary.
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