Michel De Certeau un rabdomante della luce
di Gabriella Caramore
Michel De Certeau è una delle figure che più mi hanno accompagnata in questi anni di ricerca intorno alle questioni del religioso. Ho sempre trovato in lui ispirazione e soccorso tutte le volte che ho faticato a mettere a confronto la specificità della vicenda cristiana con le specificità delle altre esperienze di fede o di conoscenza. Più ancora, la sua capacità di intrecciare il sapere religioso con il sapere di altri linguaggi, altri codici, altri lessici mi ha fatto sempre pensare a lui come a un profeta contemporaneo della pluralità.
Per questo mi piace applicare a lui una espressione che usa André Neher, ripresa dalla Qabbalà, quella di un “rabdomante della luce”. I rabdomanti della luce sono quelli che riportano a Dio le scintille di luce della conoscenza, che senza di loro rischierebbero di andare perdute. De Certeau cerca la luce, scintille di luce perdute, sotto la crosta della storia, sotto la terra arida della convenzione, dell’abitudine, della pigrizia mentale, del potere idolatrico delle comunità religiose, e le riporta in superficie, come sorgenti di acqua viva, ricostruendo così una mappa multiforme – ma geometrica – dei saperi e della storia, delle esperienze nelle vite dei singoli e delle comunità. È così che ricostruisce una “pluralità delle strade” in cui la consapevolezza delle differenze continuamente rianima i punti morti, ridona leggerezza alle zavorre, abbatte le resistenze idolatriche che costellano molte tappe dell’esperienza religiosa.
Ma, appunto, è l’esercizio dell’intelligenza della storia che dà sostegno alla pratica della pluralità. Oppure, si potrebbe anche dire invertendo i termini, che praticare la pluralità esige un lavoro dell’intelligenza, un intus legere, un capire in profondità le cose del mondo. La storia dell’esperienza religiosa da un lato ha sempre espresso l’esigenza di un “compito” dell’intelligenza, il superamento di un confine della conoscenza: tutte le grandi esperienze di fede hanno manifestato, al loro sorgere e nei momenti cruciali della loro storia, uno sporgere dell’intelligenza oltre i limiti della conoscenza. Ma è anche vero che tutte le storie delle religioni hanno espresso, per tempi troppo lunghi, ottusità idolatrica, pigrizia della mente, chiusura di ogni comprensione, seppellimento dei dubbi, irrigidimento del cuore e della mente di fronte all’irruenza del nuovo, al movimento, alla dinamicità delle cose.
Non c’è da scandalizzarsi. È comprensibile questo. Mettere in gioco “Dio” significa mettere in gioco i limiti del conoscibile, scrutare dentro i segreti del cosmo, dei tempi infiniti, degli spazi incommensurabili. Ma mettere in gioco “Dio” significa anche chinarsi sull’altro grande enigma dell’esistenza, il cuore insondabile delle creature. “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos” (Eraclito).
Ma è per questo che, dice De Certeau, occorre un cuore pensante, un cuore intelligente. “Come stupirsi che vi sia un dovere di intelligenza, dal momento che Dio, anche su questo punto, ci vuole a sua immagine? Noi gli attribuiamo la nostra stupidità nell’attribuirgli i nostri desideri, ma egli non abbandona i suoi figli nella loro stoltezza. La stolidità è una di quelle ‘cose cattive’ che Gesù menziona insieme con gli omicidi, la dissolutezza, l’inganno o l’invidia (cfr Mc 7,21-23)”.
Le differenze che il mondo ci offre possono essere colte – o elaborate, non in un senso timoroso, ma con il coraggio del rischio – solo da un cuore che pensa. Un cuore che abbia intelletto. Per questo l’ “elogio della differenza” non è mai scindibile, in De Certeau, dall’ “elogio dell’intelligenza”. Le sue parole su questo sono come una sferzata contro ogni tentazione di assopimento, di accondiscendenza, di sonno della ragione, di velato disprezzo per ogni forma non domestica di conoscenza. “Più rapida e più leggera di noi, l’intelligenza vede al di là dei nostri passi: essa precede il camminare, supera le posizioni acquisite, prende le distanze e non si attacca a quel pezzo di terra che occupiamo. Non si riposa né sull’azione compiuta, né sull’idea accolta, né sul bene posseduto. L’intelligenza disturba, come diceva il vecchio Anassagora, passa, già estranea, a questo luogo particolare, esplorando una patria più vasta. Essa critica, per ridurre non solamente l’indeterminatezza in cui ci lasciano le illusioni del cuore, ma anche altre illusioni, quelle dello spirito, che non colgono del cuore se non la superficie”.
Ed è qui, in questo “compito” di un pensiero libero e critico – quasi un “comandamento” – che si innesta l’altro grande filone del lavoro di De Certeau che penso profondamente proficuo per chiunque si trovi a “lavorare” intorno al religioso in questa nuova fase del mondo. Smetterla di pensare il cristianesimo, come ogni altra fede peraltro, seguendo canoni, autorità, istituzioni, convenzioni – irrigidendolo in una gabbia immobile che lo protegge, ma solo in superficie – e cominciare invece a pensarlo e a viverlo come “debolezza del credere”, sapendo che ogni specificità religiosa è “evanescente”, che ogni esegesi, dopo essere stata esperienza di liberazione, può diventare una nuova fortezza dentro la quale non vi è esperienza liberatoria del credere, ma prigione per sé e oppressione per gli altri.
Oggi non è più possibile sottoscrivere affermazioni religiose che pretendano di essere verità, che pretendano di stabilire il senso della vita sociale o individuale. Oggi “è necessario innanzitutto smettere di supporre universale (vera per tutti) questa opzione singolare che è la fede cristiana, ma smettere anche di restringere all’ideologia di un gruppo particolare (cristiano) la base di una riflessione teologica”. Occorre uscire pertanto dalle istituzioni teologiche che paralizzano “ il lavoro di articolazione di una esigenza spirituale sulle modalità obiettive dell’articolazione sociale”.
Così il senso del cristianesimo oggi lo si può ritrovare soltanto in un confronto aperto – “eccessivo” – con la storia globale, e elaborando una esigenza di tipo critico che De Certeau chiama il “lavoro del negativo”. Solo facendo salve queste due direttive, e seguendo un “cammino non tracciato”, si può fattivamente parlare oggi di una prospettiva cristiana, che non pretenda nessun primato, che non presuma alcuna superiorità, ma che ritorni alla sua dimensione di “strada”.
Questi pensieri Michel De Certeau li scriveva sul finire degli anni Ottanta del secolo passato. Mi sembrano oggi un passaggio obbligato per chi voglia provare a vivere il cristianesimo in maniera radicale nel millennio appena iniziato. “Questa passione dell’altro non è una natura primitiva da ritrovare, non si aggiunge neppure con una forza in più, o un abito, alle nostre competenze e ai nostri dati acquisiti. È una fragilità che spoglia le nostre solidità e introduce nelle nostre forze necessarie la debolezza del credere”.*
Note
*M. de Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, 176. Vivere il cristianesimo come “esperienza di fragilità”, “mezzo per diventare ospite di un altro che inquieta e fa vivere”, “accettando di essere deboli”. Rinunciando alla prospettiva di una universalità dei cosidetti “valori cristiani”, e accogliendo la “debolezza del credere”. Che è la sola, mi sembra, che sfugge al rischio della prepotenza idolatrica.
Ecco questo intreccio tra dovere dell’intelligenza, spirito critico, accoglienza della debolezza mi sembra che siano la mistura in cui cresce la dimensione della pluralità.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!